Si parla di crediti di carbonio dall’avvento del protocollo di Kyoto, 1997 e dalla sua applicazione nel 2005: nasceva lì il loro abc, a partire da come dovevano essere fatti e da chi. Ma come spesso succede, il mercato era ancora immaturo, composto da professionisti visionari e da project developer che erano necessariamente alle prime armi di questo mondo e che provavano a cimentarsi in ragionamenti legati al calcolo degli assorbimenti, a quello delle emissioni evitate, alla trasformazione in crediti di carbonio e a tanti altri temi correlati. Come sempre succede in una fase di start up, molti errori sono stati compiuti, anche se tutti in buona fede.
I rischi e i danni per il contrast al cambiamento climatico
Ma è con il progredire degli anni che si è passati ad errori diversi, per non dire frodi, piccole e grandi, ossia escamotage per incassare soldi approfittando del tema del cambiamento climatico che iniziava ad essere il filone aureo da cui tutti volevano attingere. Dimenticando che il vero danno non è tanto o solo la frode, quanto il rimandare sempre più in là nel tempo la problematica del cambiamento climatico e quindi l’azione climatica vera e propria.
Nel 2015, con l’accordo di Parigi, si è andato più definendo quale fosse un asset corretto con la creazione di svariate istituzioni private, non da subito riconosciute ufficialmente: ma organismi che sono diventati vere e proprie istituzioni nel mondo di crediti di carbonio come ICROA, IETA, ICVCM, IVCM, che stanno cercando di regolamentare nella maniera migliore l’integrità di questi crediti.
Il ruolo dei Carbon Core Principles
Prestare attenzione a questo mondo associativo sarebbe già molto interessante. I Carbon Core Principles raccolgono dieci punti estremamente interessanti, se applicati a un singolo progetto, perché aiutano a comprendere la qualità dell’attenzione progettuale, di calcolo e di rendicontazione che c’è alla base di quel piano.
Quindi siamo a buon punto?
Abbiamo raccolto numerosi elementi per costruire un ragionamento solido e condiviso.
Tuttavia, possiamo davvero dire che sia chiaro per tutti? No.
La realtà è più complessa. Un esempio lampante è il recente tentativo dell’ICVCM Integrity Council di introdurre un mese fa un nuovo protocollo, un’iniziativa che ha immediatamente suscitato la contrarietà di due membri dell’Advisory Board.
Ciò che per noi è un punto fermo è che crediti di compensazione dovrebbero appartenere al Paese in cui hanno sede le aziende che intendono compensare. Questo è il primo passaggio fondamentale che garantisce la capacità e la possibilità di verificare meglio l’intero processo.
Ma perché è così necessario verificare?
Perché oggi secondo la normativa europea è greenwashing acquistare crediti di carbonio che non siano ad alta integrità, privi dei sottostanti e che non abbiano dimostrato la compliance, per esempio, con i Carbon Core Principles aderendo ai 10 principi. Acquistare un credito di carbonio solo perché è certificato e registrato in un elenco pubblico non è più sufficiente. Oggi, un’azione del genere può essere considerata greenwashing e quindi diventare sanzionabile, perché non garantisce che l’investimento contribuisca realmente alla lotta contro il cambiamento climatico. È essenziale monitorare e verificare attentamente che quei fondi siano effettivamente destinati a progetti che generano una compensazione concreta delle emissioni.
Crediti di compensazione
Il secondo punto di rilevanza attiene invece all’algoritmo che deve avere una base scientifica: e non basta un qualsiasi nome di professore universitario a renderlo tale. Nel caso di Forever Bambù ci siamo orientati su Indaco e sul Politecnico che rappresentano due eccellenze nel calcolo dei GHG, gas clima alteranti; successivamente, questi algoritmi sono stati sottoposti a una peer review mondiale, un processo che ne ha certificato la validità e ha portato alla loro pubblicazione su una rivista scientifica internazionale Science Direct.
L’altro passaggio non meno importante è il team a supporto, che deve necessariamente avere dimostrato una comprovata competenza in questo settore, a garanzia dell’intero progetto. Il valore e la credibilità arrivano anche da lì.
Crediti di compensazione: i 10 principi chiave
E poi naturalmente, come accennato, è fondamentale garantire il rispetto di almeno 10 principi chiave: tra questi, per esempio vi è l’attenzione al tema della sostenibilità, a quello del conteggio della CO2, al fatto che quel progetto – nell’assorbire anidride carbonica – non causi danni, cosa che sembra scontata ma non lo è: ad esempio non avrebbe senso assorbire CO2 utilizzando macchinari che, consumando energia elettrica da fonti fossili, ne emettano così più di quanta ne assorbono.
È fondamentale che l’ente di certificazione sia nazionale, come il progetto ambientale che quell’azienda, in quella medesima nazione, vuole comprare. Che senso ha che oggi esistano progetti in Italia certificati da enti indiani? Dal nostro punto di vista, nessuno. È essenziale avere una conoscenza approfondita delle leggi, delle consuetudini e delle pratiche del paese in cui si svolge la propria attività o in cui si assume la responsabilità di rilasciare una certificazione. Ma anche, che l’ente sia accreditato da Accredia per la certificazione di quel particolare standard, che sottende ovviamente a quel calcolo. Ad esempio, normalmente si utilizza la ISO 14064 – 2 per calcolare gli assorbimenti. Ebbene, se quel calcolo deve essere certificato, la società di certificazione deve essere abilitata. In Italia esistono ancora crediti certificati da enti non abilitati. E quindi ancora una volta generano un processo che è falsato nella sua natura, e verso la natura.
Crediti di compensazione: il tema dei costi
L’ultimo aspetto determinante, come sempre, è il costo: un credito non può avere un valore basso se rispetta l’intero processo virtuoso descritto. Il nostro business plan stima che il costo dei crediti di carbonio sia 70 € a tonnellata per riuscire a compensare davvero tutto il lavoro che comporta la gestione delle foreste, per remunerare gli agricoltori e il resto della filiera. Potrebbero anche non essere 70 €, magari 50 €, o 30 €: ma certamente non possono essere 10, perché questo significherebbe essere in perdita. La bontà di un business plan che rispetta le norme, le risorse umane, l’ambiente, le tasse è già di per sé un progetto etico e rispettoso dell’ambiante inteso come ecosistema. Finché gli imprenditori vorranno occuparsi dell’ambiente pagando il minimo e comprando alberi in Africa o sud America o crediti da certificatori indiani, la situazione non cambierà in meglio. Proprio per questo è fondamentale sapere quali crediti di carbonio sto acquistando, prodotti da chi e con quale scopo.
Avoidance o riduzione
Voglio infine sottolineare che è stata introdotta negli ultimi anni da IPCC e dall’Unione Europea, grazie al regolamento CRCF che è stato approvato a novembre del 2024, una legge che bandisce tutti quei crediti di carbonio che utilizzano strategie legate all’avoidance o alla riduzione, quindi riduzione o evitamento di emissioni. Quindi non basta più che il calcolo sia fatto bene, che sia nazionale, realizzato da un valido certificatore: è troppo poco. Nonostante tutto quello che abbiamo già iniziato a fare, infatti, il 2024 è stato l’anno più caldo degli ultimi secoli, superando quel limite del grado e mezzo che era quello che l’accordo di Parigi si era dato come obiettivo. Oltre a ridurre la produzione di CO2 interna, un’azienda deve adottare un approccio proattivo investendo in attività che rimuovano direttamente l’anidride carbonica già presente nell’atmosfera. Questo è possibile riconoscendo come crediti di carbonio utili, validi e leggibili, credibili e che non generano greenwashing solo i crediti di carbonio che derivano da rimozione atmosferica attraverso le tecnologie conosciute. Parliamo quindi di Network-Based Solution come la forestazione, la riforestazione, il carbon farming e la gestione migliore del suolo per inglobare maggiori quantità di CO2, la biochar, una soluzione tecnologica che consiste nel trasformare la biomassa in un materiale carbonioso stabile, capace di trattenere il carbonio nel suolo a lungo termine, ma anche di DACCS Direct Air Carbon Capture Storage che si basa su processi chimici avanzati per catturare l’anidride carbonica direttamente dall’aria, utilizzando grandi macchinari che successivamente immagazzinano la CO2 negli oceani o nel sottosuolo oppure di BECCS, un sistema che trasforma la biomassa in energia, catturando e stoccando le emissioni di carbonio generate durante il processo.
Se quindi c’è ancora molto da definire nel trovare una strada univoca e condivisa, ciò che è chiarissimo è che oggi un’azienda, per non correre il rischio di acquistare prodotti che la espongano greenwashing, deve comprare attività che creino rimozione tangibile, e non avoidance. La strada, per chi la cerca, c’è, ed è illuminata.