Lo stop ai motori endotermici dal 2035 è stato sicuramente l’argomento più dibattuto di questi ultimi giorni, uscendo dall’ambito degli addetti ai lavori e provocando molteplici interventi di esponenti del mondo della politica e del settore imprenditoriale. In Italia il tenore di buona parte di questi commenti è stato più o meno su questi termini:
– l’Europa ha deciso di autoaffossarsi
– dalla dipendenza dalla Russia per le fonti fossili cadremo in quelle cinese per il litio
– le auto elettriche costano ancora troppo
– se l’elettricità è prodotta da carbone le auto elettriche servono a poco
– un motore termico ha bisogno di molta più componentistica rispetto a uno elettrico
– Il peso delle automobili nelle emissioni di CO2 è sostanzialmente nullo
– Inutile che l’Europa vada avanti da sola su questo tema se il Pianeta continua a inquinare
Il voto a maggioranza dell’Europarlamento che lo ricordiamo – per ora non introduce nessun obbligo, che dovrà essere nel caso stabilito dal Consiglio dell’Unione europea – è stato insomma dipinto come una sorta di colpo di mano da parte dell’integralismo ambientale, pronto a danneggiare gli interessi economici dell’Italia. Colpisce, tra l’altro, che alcune di queste dichiarazioni siano provenienti da quella stessa parte politico/imprenditoriale che – giustamente – non perde occasione sulla necessità che il nostro sistema economico sposi le strade dell’innovazione e della sostenibilità, che è poi alla base del voto dell’Europarlamento. Cerchiamo di fare quindi un attimo di chiarezza sul tema: innanzitutto sembra essere in atto un pericoloso processo di rimozione. Ovvero si scinde la questione trasporti da quella dell’inquinamento e del cambiamento climatico, che invece sono strettamente connesse, al contrario di quello che possano pensare i minimizzatori, spargendo sui social delle vere e proprie fake news.
Secondo il recentissimo rapporto “La decarbonizzazione dei trasporti – Evidenze scientifiche e proposte di policy”, elaborato dagli esperti della Struttura Transizione Ecologica della Mobilità e delle Infrastrutture (STEMI), in Italia il settore dei trasporti è direttamente responsabile del 25,2% delle emissioni di gas a effetto serra e del 30,7% delle emissioni di CO2, a cui si aggiungono le emissioni nel settore dell’aviazione e del trasporto marittimo internazionali. Non solo: il 92,6% delle emissioni nazionali di tutto il comparto è attribuibile al trasporto stradale di passeggeri e merci, settore per il quale si è registrato un aumento del 3,2% delle emissioni tra il 1990 e il 2019. Insomma: muovendoci con auto a benzina/diesel contribuiamo non poco ad aumentare la CO2 nel nostro pianeta, con conseguenze catastrofiche per il clima. Ma anche per la salute umana a livello locale, come segnala questa notizia di Enea
L’efficienza superiore dell’elettrico
Sempre lo stesso studio smontava un’altra fake news, ovvero della sostanziale inutilità ambientale della mobilità elettrica in un contesto elettrico dominato dalle fossili: in realtà, soltanto considerando il mix energetico attuale sbilanciato verso il gas (e non la sua inevitabile traiettoria di sviluppo sulle rinnovabili), infatti, la sostituzione dei veicoli a combustione interna, che oggi rappresentano il 99% del trasporto stradale italiano, con veicoli elettrici comporterebbe per il nostro Paese una riduzione del 50% delle emissioni sul ciclo di vita del trasporto leggero su strada. Questo perché, come segnala il ricercatore Nicola Armaroli del CNR, p i motori tradizionali a combustione interna utilizzati nei trasporti sono poco efficaci e inefficienti da un punto di vista energetico. Soltanto il 20% dei combustibili immessi nei motori serve effettivamente a muovere le vetture, il resto viene disperso in calore. I motori elettrici sono almeno il doppio più efficienti. Insistere sulla produzione di motori a combustione, in altre parole, significa continuare a investire su una tecnologia non efficiente da un punto di vista energetico e ambientale e che soffre già oggi di notevole perdita di appeal presso i consumatori, come evidenziano i numero attuali del mondo automotive, in forte crisi.
Tredici anni non sono pochi
Il possibile divieto stabilito dall’Europarlamento, inoltre, è per il 2035, ovvero tra 13 anni, quasi una vita da un punto di vista tecnologico: se ci guardiamo indietro 13 anni fa non esistevano praticamente tecnologie come IoT, intelligenza artificiale, il cloud era agli albori e ancora noleggiavamo i film da Blockbuster. Possibile che in 13 anni l’industria automotive europea – opportunamente supportata- non sia in grado di affrontare una rivoluzione già annunciata da anni e peraltro già partita?
Sulla possibile dipendenza dalla Cina, senza addentrarci troppo in discussioni complesse, si può dire che l’Europa è di per sé un continente fortemente dipendente dall’estero per una molteplicità di materie prime necessarie ai più svariati settori, come per esempio l’IT. Eppure nessuno si sogna di mettere in discussione la natura digitale delle nostre telecomunicazioni, oppure di propugnare un ritorno all’era analogica.
L’invito, insomma, è a guardare al problema dell’inevitabile shift tecnologico dei trasporti nella sua interezza e complessità: potranno esserci senz’altro dei problemi relativi alla filiera industriale del settore automotive, ma questi vanno sempre parametrati ai costi che stiamo sostenendo – da troppo tempo a questa parte – per tenere in piedi un mondo basato su un utilizzo inefficace e inefficiente dell’energia che abbiamo a disposizione.