C’è chi parla di era delle fake news e chi di post verità, ma lo scenario è lo stesso: in rete circolano ormai milioni di notizie false che creano nuovi rischi per la reputazione di imprese e persone. La spinta all’accelerazione del fenomeno deriva soprattutto alla diffusione del web e dei social network. Chi ritiene che il fenomeno riguardi solo alcuni ambiti, si sbaglia: dalla cronaca, alla salute, alla finanza, le fake news hanno invaso quasi ogni ambito. E il settore delle imprese non è da meno e cresce la necessitá di disporre di firme di Risk Management reputazionale.
Un contenuto informativo costruito in modo tale da sembrare verosimile, ma basato su fatti non comprovati, pubblicato e diffuso in modo massivo attraverso le piattaforme online per danneggiare un’istituzione, un partito politico, una persona, un’azienda, un brand. In genere, i contenuti delle fake news imitano le notizie nella forma, nelle modalità di proposizione, ma non si fondano su quei processi di verifica obiettivi che stanno alla base del giornalismo.
Dalle fake news una minaccia alla reputazione
Le imprese hanno iniziato a reagire, ma il discrimine temporale continua a giocare un ruolo importante: difendersi con una corretta informazione dalla velocità di diffusione e moltiplicazione delle fake news è impresa ardua. Che siano iniziative individuali, spesso dettate da ideologie anti-industriali, o attacchi studiati di soggetti che intendono danneggiare economicamente, il fine dei diffamatori è sempre comune. Denigrare, minare il rapporto di fiducia tra consumatore e impresa.
Una riflessione sul tema delle fake news e del loro proliferare incontrollato nel terreno del pluralismo informativo generato da Internet, è quello affrontato quest’anno al Convegno ANRA con la tavola rotonda “La comunicazione corporate nell’era delle fake news”, che ha analizzato in particolare le conseguenze per le imprese di una gestione assente o poco efficace della comunicazione, dal punto di vista sia reputazionale che economico.
Il Presidente Anra Alessandro De Felice ricorda «Vivere nel rischio significa saltare da uno strapiombo e costruirsi le ali mentre si precipita – scriveva Ray Bradbury, autore di Fahrenheit 451, alla fine del ‘900 – Una metafora efficace che racconta il cuore della nostra professione: affiancare chi sceglie di non restare a guardare le occasioni dall’alto ma di coglierle, affrontando un coraggioso salto nel vuoto, perché questo significa, oggi, fare impresa, con la consapevolezza che il nostro lavoro può trasformare questa caduta in un volo. È il motivo per cui abbiamo scelto una metafora come titolo di questo Convegno: ‘Sulle ali del Risk Management’».
Ingegneria Reputazionale: il caso di Reputation Manager
Reputation Manager è una società italiana che dal 2004 opera in materia di analisi, gestione e costruzione della identità online di aziende, brand, istituzioni e figure di rilievo pubblico. Ha definito e declinato i fondamenti dell’Ingegneria Reputazionale, una metodologia che coniuga competenze tecnologiche, di marketing, di comunicazione e legali a supporto della gestione del ciclo reputazionale di un’azienda e quindi progettazione, gestione, protezione e ottimizzazione multicanale dei contenuti online. Negli ultimi tre anni ha gestito oltre 1.600 casi, segnalazioni e richieste di intervento per la difesa e la protezione dell’identità digitale, ottenendo la rimozione di 900 contenuti online, e ha portato avanti oltre 600 progetti di analisi e gestione della Web Reputation per conto di aziende, istituzioni e organizzazioni nazionali e internazionali.
Ma concretamente come fa un’azienda a mettere in piedi un sistema di contromisure di fronte alla disgregazione della propria immagine?
Come proteggere la reputazione dal “falso”
“Ci occupiamo da anni del tema e non crediamo che il fare cultura sia una soluzione immediata, anche se sicuramente di lungo periodo. Dobbiamo aggredire non il portatore della notizia falsa, quanto intercettare i nodi dove la falsa informazione esiste e viene divulgata, cellule infette che si materializzano come pagine web che citano il contenuto diffamatorio. Dobbiamo intervenire sui domini fondamentali che diffondono il falso, e tecnologicamente trovarli prima. Serve una mappa delle false informazioni, che vanno certificate e classificate per grado di pericolosità e agire ancora prima che il focolaio parta. Che si tratti di mediazione legale o dialettica, vanno spente le argomentazioni, il luogo di diffusione di esplicite violazioni. L’approccio è innanzitutto tecnologico per avere uno screening completo e indicatori di misura delle false informazioni direttamente connesse al rischio reputazionale e poi di azione immediata, la velocità è la soluzione. Una volta in rete è finita. Non importa la verità, siamo in un’era in cui la verità è superata dalla percezione e se tale percezione rimane in rete per ore diventa essa stessa la verità” ha affermato Andrea Barchiesi, Fondatore e CEO di Reputation Manager.
Tutti i rischi reputazionali
Andrea Barchiesi individua quattro fattori che hanno favorito la diffusione della disinformazione.
Prima vittima: tempo
Nel mondo digitale il contenuto è persistente. Si accede alle informazioni con criterio di pertinenza e non per novità. Il tempo non è sequenziale come quello della carta stampata con informazioni diffuse dai media tradizionali che hanno un grado di raggiungibilità elevata per pochi giorni e un decadimento veloce nel tempo (i contenuti scadono), ma diventa un continuum in cui tutto esiste nello stesso momento. Un contenuto web permane e resta raggiungibile per un tempo molto prolungato grazie ai motori di ricerca.
Seconda vittima: autorevolezza
Nel caso della carta stampata, la firma, il giornalista ha un valore chiaro e riconosciuto. Al contrario, il mondo digitale vede con sospetto le fonti istituzionali e non le ritiene obiettive. Nascono nuovi influencer dal basso, come Blogger, Vlogger, persone comuni (che si dichiarano) esperte di un certo tema.
Terza vittima: controllo
La comunicazione prima del mondo on line seguiva un flusso top-down. Il brand parlava e l’utente poteva solo ascoltare o cambiare canale. Questo portava ad avere maggior controllo sulla diffusione delle informazioni e, di conseguenza, sulla reputazione.
Nel mondo digitale chiunque può scrivere, chiunque è un editore e la comunicazione diventa disintermediata e orizzontale. Gli utenti si confrontano tra loro sul brand lasciando la sua parola spesso inascoltata. Il brand non è più sorgente prima di informazione ma deve inseguire, cercare di governare.
La perdita del controllo è dovuta a due fattori:
- Velocità: prima tutto si muoveva con il calendario, ora con il mondo online la velocità di diffusione è istantanea ed esplosiva con volumi mai sperimentati prima d’ora. Una crisi non collegata ad un evento macro può esplodere e raggiungere dimensioni enormi nel giro di un paio di ore. Un caso esemplare è quello di Twitter che anticipa su qualsiasi notizia i media tradizionali.
- Viralità: prima era affidata al passaparola fisico, lento e perdeva forza nel naturale disinteresse che il tempo porta. Nel mondo online la diffusione non passa solo attraverso i media main stream ma attraverso centinaia di migliaia di rivoli che assieme formano un fiume in piena. Centinaia di migliaia di account social, non facilmente tracciabili.
Quarta vittima: verità
Conseguenza diretta della diffusione esplosiva dal basso è la nascita della post-verità, con cui si intendono nuove forme di attacco all’informazione che non è più verificata. Si inverte il paradigma: ciò che è nei giornali è manipolato e ciò che si trova in rete è vero. Cessa il ruolo di argine della carta stampata. Le informazioni si viralizzano non più in base al grado di veridicità ma in base al rafforzamento delle opinioni. I social network tendono a rafforzare le opinioni creando bacini di pensiero coerenti con il soggetto (fenomeno delle bolle ideologiche). In Italia, secondo il XIV rapporto Censis, il 50% degli utenti della rete ha dato credito a fake news.
Come contrastare le notizie false e proteggere la reputazione?
Organizzazione e alta tecnologia
Secondo quanto previsto dal metodo ‘‘classico’’ di contrasto, si procede con iniziative slegate e indipendenti come canali raccoglitori di bufale o segnalazioni da parte degli utenti, che per quanto meritevoli e specializzate, depotenziano l’azione di contrasto alla disinformazione. Il web è materia viva e in continua espansione. Non basta smascherare una bufala su un singolo sito internet, bisogna disinnescare le fonti e i focolai di disinformazione sul nascere. Il problema è disinnescare le sorgenti negative, non segnalarne (e quindi comunque amplificarne) i contenuti scorretti.
È necessario un approccio con mentalità digitale che può essere riassunto in tre passi consequenziali:
- identificazione: identificare le fake news in tempo reale in qualsiasi luogo digitale;
- certificazione: analizzare e classificare le fake news in base a grado e veridicità;
- contrasto: contrastare le fake news nei loro luoghi di esistenza tramite operazioni quali eliminazione, modifica, deindicizzazione, inserimento argomentativo.
È necessaria organizzazione e alta tecnologia. La FCM (fake content mitigation) è una disciplina operativa che ha regole proprie, richiede il coinvolgimento dell’azienda e trae beneficio dalla sinergia all’interno di un settore. Il processo di certificazione richiede l’attivazione di esperti verticali in grado di verificare puntualmente ogni singolo contenuto rilevato attraverso uno scheduling ben preciso. L’intervento richiede una tecnologia di rimozione e di interazione strutturata con i canali portatori di fake news.
Strumenti concreti di difesa della reputazione su Facebook: commenti e community
Gli strumenti attuali nelle mani degli utenti hanno semplificato la possibilità di bypassare i controlli e le conoscenze tecniche tanto che chiunque potrebbe mettere online prodotti di qualsiasi tipo.
“Quello che ho rilevato osservando le pagine Facebook, Instagram e altri profili social delle aziende è uno scarsissimo controllo dei commenti. Sono troppo sottovalutati, eppure costituiscono lo strumento per eccellenza per difendersi dagli haters o da chi scredita prodotti e figure aziendali. L’assistenza clienti interviene in minima misura di fronte a recensioni negative con risposte classiche e standard” afferma Claudio Michelizza, fondatore di Bufale.net, portale di fact-checking nazionale contro la disinformazione, le bufale e l’allarmismo che su Internet dilagano, infestando le bacheche social.
È una grave mancanza perché se non si interviene sui commenti non si riesce a creare una community di difesa, un gruppo di persone con senso critico e capaci di rispondere agli haters, lasciando così la propria immagine in balia dei social network. I commenti sono il primo segnale di allarme nel caso girino fake news contro l’azienda. Fungono da alert. Oltre a una mancanza di controllo dei commenti, le persone che vogliono segnalare qualcosa non sanno come farlo e usano la pagina FB della realtà, il primo posto dove si può scrivere qualcosa.
Occorre quindi spendere del tempo nel rispondere a tutti i commenti e quindi presupporre la presenza di moderatori che costantemente monitorano i commenti e fanno comprendere i contenuti di ciò che viene esposto, un’azione che potrebbe generare un incremento delle visite dalla pagina ad Internet con un conseguente ritorno economico e di visualizzazioni. Un altro modo per difendersi dalle fake news è quello di esplorare le opzioni di gestione dei commenti messe a disposizione da Facebook: filtri per nascondere in automatico determinati commenti per esempio, eliminare le volgarità ecc.
Regolamenti in materia di fake news
“Non esistono norme giuridiche ad hoc, ma l’anno scorso l’Unione europea ha prodotto un codice di autoregolamentazione contro le fake news che è stato sottoscritto dai principali colossi del web e che stabilisce obblighi precisi di rimozione dalle piattaforme di contenuti falsi e fuorvianti. La battaglia è ancora lunga, e non è escluso che si arrivi a una legge europea sul tema, visto che i codici di autoregolamentazione non prevedono sanzioni e quindi potrebbero rivelarsi armi spuntate” dichiara Ruben Razzante, Docente di Diritto dell’Informazione, di Diritto europeo dell’Informazione e di Diritto della Comunicazione per le imprese e i media all’Università Cattolica del Sacro Cuore e alla Lumsa di Roma ed editorialista di diverse testate.
Ma le aziende attaccate come possono rivalersi?
Le aziende possono chiedere alle piattaforme di rimuovere fake news che le riguardano e, in caso di diniego, possono adire le vie legali in forza dell’art.595 c.p. riguardante la diffamazione con altro mezzo di pubblicità diverso dalla stampa, in questo caso Internet. La giurisprudenza è sempre più ricca di sentenze che riconoscono lauti risarcimenti a cittadini e imprese lesi dalla pubblicazione di notizie diffamatorie nel web.
Fake news, uso responsabile della rete, privacy e diffamazione. sono solo alcuni egli argomenti di cui si parla sul sito www.dirittodellinformazione.it nato proprio da un’idea di Ruben Razzante, che punta a trattare con regolarità e con un linguaggio fluido e scorrevole tutti i temi più attuali del diritto dell’informazione e quindi relativi alla tutela della qualità delle notizie in Rete e alla tutela dei diritti delle persone nel web, avvicinando così il grande pubblico alle regole del web, per troppo tempo considerate soltanto materia per addetti ai lavori.
Attraverso la pubblicazione di notizie attendibili e verificate e di fake news fuorvianti e manipolate, intende dimostrare che la competenza e la responsabilità nella divulgazione dei fatti e delle opinioni sono indispensabili per realizzare una sana ed equilibrata democrazia dell’informazione. A tal fine, si è pensato di costituire un comitato scientifico composto da rappresentanti delle istituzioni, del mondo delle professioni, delle associazioni e del circuito delle imprese di settore per testimoniare il valore dell’iniziativa con riferimento alla qualità dei contenuti in Rete.
Partire dal brand: i valori che definiscono un’azienda e creano fiducia tra i consumatori digitali
Partendo da un concetto di fiducia, oggi determinante per una marca e la sua credibilità e da un concetto di valore, dato da quanto si conosce, dall’awareness e dall’apprezzamento che il mercato attribuisce ad un’azienda, è possibile dedurre che reputazione e marca hanno significati quasi sovrapposti, sono molto simili. In un contesto in cui le comunicazioni sono frammentate, RBA Design vuole riportare il design del marchio al centro di un processo strategico-creativo, rendendolo il filo conduttore del rapporto marchio-consumatore. Da anni questo gruppo si occupa e lavora in termini di brand identity, supportando le aziende nella costruzione della marca attraverso il design e quindi collega idee e significati a prodotti e servizi in modo da ottenere, scelta dei consumatori e riconoscibilità.
“Per le aziende, avere un controllo reale ed efficace sulla comunicazione e sulle notizie digitali è molto difficile oggi. Viviamo in un mondo disruptive, dove il canale della comunicazione è cambiato, come cambiati sono anche i consumatori. Viralità, smartphone, trasparenza, selfie sono tutti aspetti che hanno determinato un profondo cambiamento nel rapporto tra persone e aziende e quindi anche queste devono cambiare il loro rapporto con il mercato. Il concetto del controllo tout court è forse un obiettivo mal posto. Oggi gli strumenti che una volta erano di proprietà dell’azienda, sono a disposizione di tutti e caratterizzati da grande facilità di accesso. Come naturale conseguenza, il consumatore diventa il vero padrone della marca. Forse bisogna focalizzarsi su un percorso a monte, ridefinendo il sapere della propria identità, ciò che si rappresenta, parlare, ascoltare e rispondere” ha affermato Fabrizio Bernasconi, CEO RBA Design.
Il mercato è molto più pronto e desideroso di essere ascoltato e la marca si deve adeguare da questo punto di vista. Più partecipazione, meno burocrazia, più semplicità. Bisogna sapersi presentare e soprattutto dialogare. Dietro ogni segno ci deve essere un significato profondo: deve essere semplice e riconoscibile. Concetti di differenza, di valore, di attrattività e di significato sono di base e fanno la differenza soprattutto nel mondo del largo consumo dove il branding è nato ed è di efficacia straordinaria. Questi aspetti sono considerati nella costruzione dell’identità che porta valore del brand.
A questo serve il branding by design. Affinare le tecniche che aiutano a fare in modo che i consumatori, il mercato riconoscano una certa identità all’azienda, le attribuiscano un valore, una differenza e una qualità e in ultima analisi, un senso di appartenenza. Tutto questo può essere significativamente supportato dal design, un processo strategico che parte dall’identificazione dei valori. Il vero tema oggi è l’autenticità, sapere chi sei e cosa rappresenti e cosa vuoi ottenere dal mercato. La marca non è un semplice strumento: possiede un grande valore oggi e da sempre e si esemplifica con l’assegnare segni e parole a prodotti o servizi di modo che trasferiscano significati potenti, un valore aggiunto rispetto al prodotto stesso.
Oggi si parla di un mondo tecnologico in cui ciò che farà la differenza in termini di identità sarà il fattore umano. La marca fa la differenza: tutte quelle tecniche che fanno in modo che un prodotto sia riconosciuto in quanto differente e di significato proprio. La tecnologia porterà a un nuovo rapporto tra aziende e mercato, ad un recupero stilistico e di linguaggio. Oggi i brand puntano ad una certa fisicità, ad una umanità, sono meno burocratici, meno rigidi, vogliono trasferire flessibilità. I brand vogliono apparire come smart brand, con un certo intelletto, con prodotti adatti ai consumatori di oggi. Un brand deve essere riconosciuto come sociale: predisposizione alla conversazione, all’ascolto, alla risposta.
“Quindi, di fronte alle cosiddette fake news, l’azienda non si deve irrigidire. Se un brand ha costruito la sua identità in termini di fiducia, i consumatori sono scaltri nel riconoscere chi dice la verità o meno. L’emotività è un altro concetto importantissimo, un valore premiante e premiato. Nel senso anche un po’ di scardinare logiche troppo top-down. I brand devono essere alla pari con i consumatori. Last but not least, il concetto di integrità: oggi alla gente non basta comprare un prodotto buono, vuole che provenga da un’azienda buona. Il mercato ha tutti gli strumenti per riconoscere questo e spesso li usa, riconoscere la moralità della fonte, di un’azienda. Tutto questo crea marca oggi, non è packaging, pubblicità, web site ma tutta una serie di variabili che creano percezioni” conclude Bernasconi.
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