La diffusione del contagio da Covid-19 ha radicalmente modificato le nostre abitudini di vita, riflettendosi notevolmente sulla nostra sfera sia personale che professionale.
Nel tentativo di gestire quella che l’OMS ha definito come una pandemia è stata generata nel nostro paese – a livello giuridico – una fitta legislazione, nel giro di poco tempo. Improvvisamente, in questa maniera, alle varie normative ordinarie di settore se ne sono affiancate di emergenziali, dirette a integrare o a derogare le prime nei più vari e diversificati settori della vita civile: essenziale, di fronte a un tale quadro, diventa il lavoro dell’interprete nel raccordo tra le varie fonti normative.
L’esigenza di predisporre misure di sicurezza finalizzate a contenere il più possibile l’espansione del contagio, essenziale in un contesto del genere, porta al centro dell’attenzione di studiosi e interpreti del diritto, ancora una volta, il settore della salute e sicurezza sul lavoro.
Gli obblighi del datore di lavoro
È noto come, in tale campo del diritto, l’obbligo generale di sicurezza sia posto primariamente in capo al datore di lavoro; se da un lato, l’art. 2087 c.c. gli impone di «adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro», dall’altro la legislazione di settore, rappresentata principalmente dal Testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (d.lgs. n. 81/2008), provvede a specificare ulteriormente quel dovere, sancendo una fitta serie di oneri prevenzionistici e rendendo la figura in oggetto il “principale debitore di sicurezza” nei luoghi di lavoro.
Tra gli obblighi propri del datore di lavoro spiccano, per la loro priorità logico-giuridica, quelli delineati dall’art. 17 del T.U. e definiti dallo stesso espressamente come “indelegabili”: «a) la valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del documento previsto dall’art. 28» nonché «b) la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi». Com’è noto, è solamente tramite l’adempimento di tali oneri che si pongono le basi per un adeguato sistema di prevenzione aziendale, parametrato su una corretta valutazione di tutti i rischi cui i lavoratori sono quotidianamente esposti in azienda.
Ed è proprio sulla necessità o meno di aggiornare il DVR aziendale ex art. 28 T.U. (o il DUVRI ex art. 26 co. 3 T.U. nel caso in cui l’impresa abbia appaltato uno o più lavori o servizi a imprese esterne) che si è concentrata negli ultimi giorni l’attenzione degli studiosi e dei docenti della materia. La pubblicazione del D.P.C.M. dell’11 marzo 2020 prima, e la ratificazione del protocollo condiviso tra governo e parti sociali del 14 marzo 2020 poi, ha portato molti imprenditori a interrogarsi sulla necessità o meno di provvedere a completare tali documenti in conformità alle nuove disposizioni di legge anti-contagio; interrogativo, la cui rilevanza è ulteriormente accentuata dalle sanzioni penalmente poste dallo stesso testo unico all’art. 55, in caso di omesso adempimento ai doveri di cui all’art. 17 summenzionato[1].
Aggiornare o no il documento di valutazione dei rischi?
Il dibattito dottrinale pur delineatosi nei giorni immediatamente successivi all’adozione di tali misure ha dimostrato di dividersi idealmente in due contrapposte correnti di pensiero; la dialettica, partendo dal presupposto del nuovo coronavirus quale “agente biologico” normativamente sussumibile nella definizione fornita in materia dall’art. 267 T.U.[2], se ha portato da un lato a “riscoprire” il titolo X del testo unico stesso (intitolato significativamente “esposizione ad agenti biologici”) ha posto da un altro lato la questione se, quella che sembra incontrovertibilmente una esposizione dei lavoratori a un nuovo rischio biologico non previsto in precedenza debba portare all’aggiornamento del DVR – Documento di valutazione dei rischi, o all’introduzione in esso, qualora non prevista in precedenza, di una sezione apposita dedicata.
A prima vista, in effetti, la questione sembra di agile soluzione. Quanti sostengono l’opportunità di procedere quanto prima a una rinnovata valutazione dei rischi aziendali, fanno leva in primo luogo sull’inconfutabile dato testuale proprio di molte norme contenute nel testo unico[3], che nel disporre l’obbligo, in capo al datore di lavoro, di procede a valutare i rischi aziendali, tramite l’utilizzo dell’espressione “tutti” sembrerebbe non escluderne a prima vista alcuno, tra quelli potenzialmente incidenti sul bene giuridico vita-incolumità personale dei prestatori di lavoro. Si veda, a titolo esemplificativo, oltre al già menzionato art. 17, co. 1, lett. a), altresì l’art. 15, co. 1, lett. a)[4]; o ancora, l’art. 2, co. 1, lett. q), relativo alla definizione normativa dell’espressione “valutazione dei rischi”[5]; ovvero, a mo’ di controprova, la lettera o) dello stesso articolo 2, co. 1[6], relativo alla definizione di “salute”, orientato chiaramente nel senso di fornirne una il più possibile onnicomprensiva.
A ben vedere, tuttavia, l’interrogativo in esame è meno banale di quanto potrebbe sembrare. Quanti sostengono la non obbligatorietà dell’aggiornamento del documento di valutazione dei rischi partono precipuamente da un’interpretazione sistematica dell’obbligo di valutazione di “tutti i rischi”, a partire da un dato che, nelle economie del testo unico del 2008, ha un peso determinante: l’organizzazione aziendale. Già a partire dalle “definizioni” fornite dall’art. 2, co. 1, essa dimostra di ricorrere sovente: così come il datore di lavoro è colui che ha la «responsabilità dell’organizzazione stessa», allo stesso modo la “valutazione dei rischi” concerne quelli, tra di essi, che sono «presenti nell’ambito dell’organizzazione in cui [i lavoratori] prestano la propria attività»; e gli esempi potrebbero continuare.
È innegabile come nell’ambito del Testo Unico del 2008 il dato organizzativo assuma un ruolo specifico ben definito; se da un lato, il sistema della prevenzione in esso delineato muove nel senso di “difendere” i lavoratori dai rischi potenzialmente incidenti sulla loro salute e scaturenti da un contesto su cui loro non hanno possibilità di esercitare alcun potere decisionale, da un altro lato il pericolo di contagio da Coronavirus apparentemente sembra idoneo a mettere in discussione tale impostazione. L’organizzazione dei fattori produttivi, infatti, da “fonte” di rischio, quale è concepita nel Testo Unico, diviene ora più che altro “veicolo” per la diffusione di un pericolo, il contagio, il quale, lungi dall’originarsi in seno all’azienda, trova in essa null’altro che uno strumento per la propria propagazione; la quale, in quanto tale, potrebbe aver luogo tanto sul luogo di lavoro, quanto altrove[7].
È a partire da tali considerazioni che questi autori riprendono una distinzione, già propria del diritto della sicurezza sul lavoro, tra rischi endogeni o professionali e rischi esogeni, a seconda che la fonte da cui si origina il pericolo derivi dall’interno dell’azienda, come può avvenire nell’impiego di un agente patogeno nell’ambito del ciclo produttivo, oppure viceversa dall’esterno di essa, e sia dunque completamente scollegato dai suoi fattori produttivi[8]. Questo distinguo, già implicito nella normativa del Testo Unico[9], viene da questa impostazione talora tracciato sulla base del criterio dell’aumento del rischio; il rischio sarebbe endogeno o professionale nel momento in cui svolgere l’attività lavorativa comporta per il lavoratore un’esposizione al pericolo maggiore rispetto a quella propria della comunità[10]. A ragionare altrimenti, proseguono questi autori, si arriverebbe alla conseguenza di dover considerare “professionale” qualunque fatto esterno che per un qualche motivo venga ad incidere sulla vita o sulla salute dei lavoratori.
Se da un lato, di tale impostazione pare ravvisarsi traccia anche nella recente giurisprudenza della Corte di legittimità[11], da un altro lato a suo favore militano altresì dati testuali in grado di orientare l’interpretazione dell’onere di valutazione dei rischi, ulteriori rispetto a quelli già richiamati e di segno contrario; ci si riferisce qui, alla definizione di “prevenzione” che alla lettera n) dell’art. 2 T.U. è delineata come «il complesso delle disposizioni o misure necessarie […] per evitare o diminuire i rischi professionali […]»; ma anche alle ipotesi legislativamente previste dall’art. 29, co. 3 T.U. nelle quali il massimo debitore di sicurezza abbia l’obbligo di procedere ad aggiornare il documento di valutazione dei rischi, tutte apparentemente distanti dall’attuale configurazione della situazione epidemica[12].
Da una siffatta lettura delle norme discenderebbe un primo corollario; l’aggiornamento del documento di valutazione dei rischi, se non strettamente necessario per tutti gli imprenditori che esercitino attività non sanitarie, diverrebbe viceversa obbligatorio per tutti quanti al contrario impieghino lavoratori in attività di tipo sanitario, nell’ambito delle quali il rischio di contagio da coronavirus sia un fattore che derivi specificamente dalle caratteristiche peculiari del lavoro in questione, e pertanto possa sì definirsi come “professionale”.
La contraddittorietà delle fonti normative
La attuale situazione di confusione è testimoniata altresì dalla apparente contraddittorietà di numerose fonti normative o regolamentari emanate in materia negli ultimi tempi; se da un lato, ad esempio la regione Veneto emana delle “Indicazioni operative per la tutela della salute negli ambienti di lavoro non sanitari” nelle quali viene introdotta una voce in cui si dichiara espressamente l’aggiornamento del DVR non necessario, se non in ambienti di lavoro sanitario, per le motivazioni di cui sopra[13], da un altro lato la regione Emilia-Romagna pare muoversi in direzione contraria nel momento in cui, a distanza di pochi giorni, emana due distinte ordinanze le quali dispongono l’obbligo, seppure limitatamente alle provincie di Piacenza e Rimini, per le attività produttive non sospese, di procedere a redigere documenti di valutazione del rischio, con specifico riferimento al contagio da Covid-19[14].
In ogni caso, con riferimento alle attività non sanitarie, è importante compiere un’ulteriore considerazione. Sebbene si possa discutere sull’applicabilità o meno del titolo X del T.U. e del dovere del datore di lavoro di procedere ad un aggiornamento specifico del DVR aziendale, una cosa è certa: in quanto massimo debitore di sicurezza e garante della salute dei propri prestatori di lavoro, egli dovrà di per certo muoversi per rispettare e far rispettare sui propri luoghi di lavoro le misure di prevenzione dettate dallo Stato per il contenimento del contagio; in altre parole, a prescindere dal fatto che tale obbligo gli discenda dalla specifica rete di oneri di sicurezza tracciata dal testo unico o da un ordine diretto della pubblica autorità, invariata rimane la posizione di garanzia del datore di lavoro, in quanto discendente direttamente dall’art. 2087 c.c. (e in ultimo, dallo stesso art. 41, co. 2, Cost.).
Parimenti, difficilmente confutabile pare la considerazione che il datore di lavoro possa venire imputato e conseguentemente condannato per omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime colposi, con violazione della normativa antinfortunistica, laddove si dimostri una negligenza nell’adottare le misure prevenzionistiche dettate dalle recenti fonti regolamentari (oltre che chiaramente ove vengano dimostrati i restanti elementi del reato); e che tale imputazione possa fungere da base per la responsabilità amministrativa da reato dell’ente coinvolto, ex d.lgs. n. 231/2001.
Il “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”
Nonostante si possa discutere in ordine alla sua effettività e vincolatività[15], è dunque necessario procedere specificamente a una attenta disamina del contenuto delle disposizioni prevenzionistiche contenute nel “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, stipulato tra governo e varie organizzazioni datoriali e sindacali[16].
Il protocollo, suddividendo in 13 punti le misure di prevenzione anti-contagio, sebbene si ponga come utile strumento per affrontare il rischio sui luoghi di lavoro, deve tuttavia necessariamente essere integrato da una attenta valutazione delle situazioni ed esigenze specifiche che si vengono a creare concretamente in ogni azienda, e ad esse parametrato sulla base dei rischi concreti di volta in volta configurabili; lavoro che certamente il datore di lavoro dovrà provvedere a svolgere in collaborazione col responsabile del servizio prevenzione e protezione e col medico competente, in coordinamento col rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, curandosi di formalizzare le proprie azioni con atti che diano conto del lavoro svolto e ne consentano la tracciabilità[17].
In conclusione, dunque, si può affermare che il “nuovo” sistema di sicurezza aziendale specificamente diretto a prevenire il diffondersi del contagio da Covid-19, anziché sostituirsi, si affianchi a quello “tradizionale” delineato dal Testo Unico del 2008, e a esso vada a integrarsi; i due ambiti, pur con le loro differenze, si ricongiungono nel momento in cui entrambi fanno capo allo specifico dovere di sicurezza posto a carico del datore di lavoro; egli, in quanto detentore dei «poteri decisionali e di spesa», ha la responsabilità dell’organizzazione dell’azienda nel suo complesso, nonché l’obbligo di adempiersi per tutelare l’integrità, fisica e morale, dei prestatori di lavoro.
- Ovviamente, tale quesito si pone con riferimento a quelle attività che, sempre sulla base del D.P.C.M. 11 marzo 2020 non sono state sospese o quantomeno poste in modalità di lavoro agile (c.d. smart working). ↑
- L’art. 267 T.U. recita: «Ai sensi del presente titolo s’intende per: a) agente biologico: qualsiasi microrganismo anche se geneticamente modificato, coltura cellulare ed endoparassita umano che potrebbe provocare infezioni, allergie o intossicazioni». ↑
- Dubini R., COVID-19: sulla valutazione dei rischi da esposizione ad agenti biologici, in www.puntosicuro.it, 02 marzo 2020. ↑
- «Le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro sono: a) la valutazione di tutti i rischi per la salute e sicurezza». ↑
- «q) “valutazione dei rischi”: valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell’ambito dell’organizzazione in cui essi prestano la propria attività, finalizzata ad individuare le adeguate misure di prevenzione e di protezione e a elaborare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza». ↑
- «o) “salute”: stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità». ↑
- Pascucci P., Coronavirus e sicurezza sul lavoro, tra “raccomandazioni” e protocolli. Verso una nuova dimensione del sistema di sicurezza aziendale?, in Diritto della Sicurezza sul Lavoro, n. 2/2019. ↑
- Gallo G., Come rispondere alle richieste di aggiornamento del dvr da coronavirus?, in http://www.puntosicuro.it, 03 marzo 2020; Catanoso C., La valutazione dei rischi e il DVR ai tempi del coronavirus, sempre in http://www.puntosicuro.it, 27 febbraio 2020. ↑
- Il summenzionato Titolo X del T.U. da un lato regola l’attività del datore di lavoro che «intend[a] utilizzare, nell’esercizio della propria attività, un agente biologico» (artt. 269 e 270), dall’altro tratta la situazione di quell’imprenditore che pur non avendo «la deliberata intenzione di operare con agenti biologici» (art. 271, comma 4), organizzi attività lavorative che possono comportare il rischio di esposizione a tali agenti. ↑
- Oltre al già menzionato Pascucci P., vedi Pelusi L.M., Tutela della salute dei lavoratori e COVID-19: una prima lettura critica degli obblighi datoriali, sempre in Diritto della Sicurezza sul Lavoro, n. 2/2019. ↑
- A riguardo vedi, seppure con riferimento al contiguo ambito dell’obbligo di corretta informazione ai lavoratori, Cass., sez. lav., 16 agosto 2019, n. 21428, in cui si è affermata la «impossibilità di ritenere che tra gli obblighi informativi di cui all’art. 4, lett b, del D.P.R. n. 303/1956 sia da ricomprendere il dovere di rendere edotti i lavoratori dei modi di prevenire anche i danni esulanti dai rischi connessi allo specifico obbligo di protezione e prevenzione previsto dalla norma (rischi derivanti dalle attività di cui all’art. 1 comma 1 che individua il campo di applicazione dello stesso decreto); negli stessi termini l’art. 18 d.lgs 9.4.2008 n. 81 prescrive obblighi informativi connessi ai rischi delle attività svolte». ↑
- Ma l’inadeguatezza delle fonti legislative attuali ad affrontare una situazione di epidemia globale come quella in atto si ravvisa anche a partire dall’allegato XLVI del d.lgs. n. 81/2008, nell’ambito del quale i virus appartenenti alla famiglia dei coronaviridae vengono classificati come gruppo 2, ovvero, testualmente, in base alla definizione fornita dall’art. 268, co. 1, lett. b): «un agente che può causare malattie in soggetti umani e costituire un rischio per i lavoratori; è poco probabile che si propaga nella comunità; sono di norma disponibili efficaci misure profilattiche o terapeutiche»; caratteristiche certamente ben lontane da quelle universalmente note per essere proprie del Covid-19. ↑
- Testualmente, nella versione delle “Indicazioni operative” aggiornata al 26 marzo 2020, pag. 6: «non si ritiene giustificato l’aggiornamento del Documento di Valutazione dei Rischi in relazione al rischio associato all’infezione da SARS-CoV-2 (se non in ambienti di lavoro sanitario o socio-sanitario, esclusi dal campo di applicazione del presente documento, o comunque qualora il rischio di infezione da SARSCoV-2 sia un rischio di natura professionale, legato allo svolgimento dell’attività lavorativa, aggiuntivo e differente rispetto al rischio per la popolazione generale). Diversamente, può essere utile, per esigenze di natura organizzativa/gestionale, redigere, in collaborazione con il Servizio di Prevenzione e Protezione, con il Medico Competente e con i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza, un piano di intervento o una procedura per la gestione delle eventualità sopra esemplificate, adottando un approccio graduale nell’individuazione e nell’attuazione delle misure di prevenzione, basato sia sul profilo del lavoratore (o soggetto a questi equiparato), sia sul contesto di esposizione». Tali argomentazioni sono state poi sostanzialmente riprese anche dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro il quale, nella sua nota del 13 marzo 2020 n. 89 condivide le argomentazioni della regione Veneto specificando che «ispirandosi ai principi contenuti nel d.lgs. n. 81/2008 e di massima precauzione, discendenti anche dal precetto contenuto nell’art. 2087 c.c. si ritiene utile, per esigenze di natura organizzativa/gestionale, redigere – in collaborazione con il Servizio di Prevenzione e Protezione e con il Medico Competente – un piano di intervento o una procedura per un approccio graduale nell’individuazione e nell’attuazione delle misure di prevenzione, basati sul contesto aziendale, sul profilo del lavoratore – o soggetto a questi equiparato – assicurando al personale anche adeguati DPI». ↑
- Si fa riferimento qui all’ordinanza del presidente della giunta regionale n. 44 del 20 marzo 2020, e quella n. 47 del 23 marzo 2020. ↑
- Cfr. sul punto sempre Pascucci P., op.cit. p. 107. ↑
- A riguardo, cfr. Menduto T., Come realizzare e attivare nelle aziende un protocollo anti-contagio, in http://www.puntosicuro.it, 27 marzo 2020. ↑
- A riguardo, cfr. ancora la nota 13 marzo 2020, n. 89 dell’INL. ↑