La pandemia e il lockdown hanno imposto l’adozione di una modalità di lavoro impropriamente definita “smart working” che ha fisicamente diviso e allontanato lavoratore e datore di lavoro. In questa nuova dimensione, forzata dall’emergenza sanitaria e in moltissimi casi “improvvisata” perché realizzata senza alcun tipo di preavviso, l’utilizzo dei social è aumentato in maniera esponenziale e ci si è quindi chiesti se e in che misura l’attività social di un dipendente possa incidere sulla web reputation aziendale.
L’utilizzo dei social durante la pandemia
Il materiale allontanamento dal luogo di lavoro e la persistente attività lavorativa in condizioni non sempre ideali ha creato alcune criticità di cui, in alcuni casi, è stata data ampia testimonianza sui social personali dei dipendenti. Ci si è quindi chiesti se e in che modo queste condivisioni possano aver inciso sulla web reputation dell’azienda e in quale misura il datore di lavoro abbia il potere di intervenire per limitare gli eventuali effetti negativi.
Il primo elemento da considerare è il fatto che questa problematica legata agli effetti dell’attività social dei dipendenti non è sorta con la pandemia, ma ha radici ben più profonde, antecedenti alla diffusione del Covid 19. L’azienda infatti ha una duplice presenza online: da un lato, infatti, costruisce attivamente la propria identità digitale attraverso i contenuti che posta e le azioni che compie in rete, dall’altro, invece, è il soggetto destinatario delle conversazioni che la riguardano, delle recensioni che vengono lasciate dai clienti e di tutte quelle attività che vengono compiute da altri soggetti, ma che la interessano direttamente.
L’azienda, quindi, deve prestare estrema attenzione e deve valutare anche le azioni che vengono compiute dalle persone che sono strettamente collegate alla stessa, come per esempio i dipendenti, le cui interazioni possono avere una ricaduta sull’identità digitale aziendale.
Potrà sembrare superfluo ma non bisogna sottovalutare il fatto che le azioni di terze persone possono avere degli effetti, sia positivi sia negativi, anche sull’immagine dell’azienda e quindi l’attività sui social dei propri collaboratori dovrebbe essere regolamentata da una policy interna che miri a prevenire problemi (anche) reputazionali per l’azienda.
L’importanza di una policy aziendale
In questa prospettiva, quindi, assume importanza fondamentale la presenza di una policy aziendale che regolamenti l’attività dei dipendenti online. Principio, questo, che vale in linea generale, indipendentemente dalla pandemia e dalle problematiche lavorative ad essa collegate, ma che non sempre trova un riscontro concreto nella realtà. In altre parole non sempre l’azienda si è dotata di una social media policy e, pertanto, risulta vulnerabile da questo punto di vista.
È sicuramente possibile rimediare, ma in mancanza di una policy specifica e approvata dal dipendente non è così semplice ovviare ai possibili effetti negativi dell’attività altrui sul web che riflette i suoi effetti sulla brand reputation. Bisogna infatti fare una precisazione.
La social media policy rappresenta un accordo contrattuale che, come tale, deve essere approvato dalle parti. Se da un lato, infatti, il datore di lavoro prevede determinate limitazioni per l’attività online del dipendente, si pensi per esempio al divieto di esprimere giudizi negativi in relazione alla propria attività lavorativa, dall’altro possono essere inserite specifiche sanzioni per quanto concerne la violazione delle disposizioni della social media policy. È quindi necessario che, ai fini della validità della stessa, venga approvata dal dipendente che ne rimarrà, di conseguenza, vincolato.
Le modalità con le quali fare approvare tale policy aziendale possono variare in base a molteplici fattori, come per esempio il fatto che la stessa sia sottoposta al lavoratore al momento dell’assunzione o in durante il rapporto di lavoro.
Ciò che qui interessa è l’efficacia della stessa e la possibilità per il datore di lavoro di opporla al proprio dipendente.
Si possono infatti verificare due diverse ipotesi:
- social media policy esistente prima della pandemia: le disposizioni della policy potranno essere efficacemente invocate dal datore di lavoro nei confronti del dipendente e potranno allo stesso essere applicate le relative sanzioni, secondo le previsioni della stessa.
- assenza di social media policy: in questo caso il datore di lavoro non potrà invocare alcuna policy aziendale che non sia stata resa al dipendente prima della contestata violazione, con la ovvia conseguenza che i mezzi con i quali il datore potrà gestire qualsiasi effetto negativo dell’attività online del dipendente sono quelli previsti dalla legislazione vigente.
Resta in ogni caso la possibilità per il datore di lavoro di predisporre una policy aziendale ad hoc per la situazione emergenziale, che tenga in considerazione anche e soprattutto le nuove modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, sia in presenza in azienda, sia da remoto nella formula di lavoro a distanza, impropriamente definito smart working.
In questo caso, verosimilmente, la policy potrà essere estesa non solo all’utilizzo dei social media, ma anche degli strumenti, digitali e non, impiegati per effettuare la prestazione lavorativa.
I controlli e le limitazioni del datore di lavoro
Ciò che preme sottolineare è che la policy aziendale non deve trasformarsi in un “controllo” da parte del datore di lavoro dell’attività social del dipendente.
I limiti e le prescrizioni possono e devono riguardare unicamente le attività che in qualche modo possano essere ricollegate all’azienda e non già, in maniera generale e incondizionata, ogni attività che il dipendente può svolgere online. Non solo.
È possibile anche “personalizzare” la policy in relazione alle specifiche attività svolte dal dipendente, ossia in base al ruolo ricoperto in azienda. Ovviamente questo comporta che la policy sia dettagliata e ogni singolo aspetto sia specificato con riferimento alle mansioni svolte dal dipendente, poiché talune previsioni potrebbero risultare inutili per alcuni profili lavorativi.
Si pensi, per esempio, alla regolamentazione relativa ai social durante un viaggio di lavoro.
È evidente che tali previsioni possano interessare solo le figure apicali e pertanto dovranno essere limitate alle stesse e non, al contrario, estese alla totalità dei dipendenti.
Conclusioni
La tutela della brand reputation passa (anche) attraverso la predisposizione di policy aziendali in grado di regolamentare in maniera corretta le azioni dei dipendenti sui social network, poiché il legame tra questi e l’azienda può incidere negativamente sulla reputazione aziendale.
In un periodo di emergenza, in cui l’imposizione di restrizioni alle libertà personali ha avuto come naturale conseguenza quella di maggior utilizzo della rete, il rischio di un impiego non corretto dei social è alto e concreto.
La prevenzione, in questo caso, è fondamentale e pertanto sarebbe opportuno, per non dire indispensabile, che anche le aziende che non hanno provveduto a dotarsi di policy si adoperassero per colmare questo pericolosissimo gap, attraverso l’adozione di specifiche policy, oltre che a formare in tal senso i propri dipendenti.