Già due anni fa, un interessante servizio su Nature lo aveva anticipato: il sogno di ogni epidemiologo è un futuro nel quale le malattie infettive possano essere tracciate e rintracciate con la stessa sicurezza e precisione dei meteorologi con le previsioni del tempo.
Un futuro, va detto, ancora abbastanza lontano dal realizzarsi, anche perché, è un dato di fatto, rispetto ad altri ambiti, meteorologia in primis, nel mondo della medicina i dati disponibili sono – o forse sarebbe più corretto dire erano – di diversi ordini di grandezza inferiori, anche in ragione delle rigide procedure e dei protocolli in base ai quali i centri di ricerca e le autorità sanitarie monitorano il propagarsi di virus e malattie.
Da Internet un serbatoio di dati per i Data Scientist
Va detto che negli ultimi anni, l’accesso diffuso a Internet e più in generale al tema della “digital health” ha dato vita a un ricco serbatoio di dati preziosi a disposizione dei ricercatori, i quali, raccogliendo e combinando i flussi di big data con i metodi convenzionali utilizzati per monitorare le malattie infettive, hanno di fatto nuovi strumenti a propria disposizione per avere un quadro più preciso e puntuale della situazione o per contenere i rischi laddove una epidemia sia in corso.
Fin dal 2008, i data scientist di Google avevano cominciato a utilizzare i dati raccolti online per tracciare le malattie infettive. L’algoritmo Google Flu Trend esaminava centinaia di miliardi di query degli utenti per individuare i piccoli aumenti di ricerche su termini correlati ai fenomeni influenzali, dai sintomi alla disponibilità dei vaccini, con il risultato di mappare con una discreta precisione l’incidenza dell’influenza e aprendo di conseguenza interessanti prospettive sull’uso dei dati per il monitoraggio della salute pubblica.
Tuttavia, l’affidabilità dell’algoritmo venne meno un anno più tardi, con la pandemia H1N1, nota come influenza suina: il panico generato dalle notizie che circolavano sulla malattia induceva picchi di ricerche, invalidando di fatto l’efficacia dell’algoritmo stesso. Nel giro di pochi anni il progetto è stato abbandonato, anche perché non core per la stessa Google.
Le basi tuttavia erano state poste e da almeno cinque anni i ricercatori che lavorano sulla diffusione delle malattie infettive utilizzano anche i dati provenienti dai motori di ricerca o dai canali social per ottenere informazioni in base alle quali mappare rapidamente nuovi casi o focolai. (L’articolo integrale pubblicato da Nature può essere consultato a questo indirizzo)
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Da H1N1 a COVID-19
E veniamo a oggi.
La rapida comparsa e diffusione del nuovo coronavirus, COVID-19, ha messo in allarme il mondo per il timore di una vera epidemia globale e per la sua capacità di diffondersi da uomo a uomo, tanto da indurre l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) a dichiararlo emergenza sanitaria globale.
Per fronteggiare il coronavirus, i funzionari della sanità pubblica in tutto il mondo dispongono di una serie di strumenti di data analytics, incluso il monitoraggio di dove COVID-19 si è già diffuso, come si sta diffondendo e analisi previsionali sui successivi spostamenti.
Rispetto al passato, ricercatori e operatori sanitari hanno a loro disposizione più strumenti e più dati, anche se, va riconosciuto, la prima fase è e resta un lavoro in gran parte manuale.
Ma mano a mano che la malattia si diffonde, nuovi dati vanno ad aggiungersi a quelli già raccolti, contribuendo a dare un quadro sempre più definito sulla sua diffusione.
Il passo successivo è lo sviluppo di modelli predittivi, che aiutino a capire come il virus potrebbe ulteriormente diffondersi e in quale forma.
Un ruolo importante in questo scenario lo rivestono anche i GIS (Geographic Information Systems) che aiutano a tracciare la diffusione di COVID-19 nello spazio e nel tempo. Il John Hopkins Center for Systems Science and Engineering (CSSE) ospita una dashboard GIS in tempo reale che mostra tutti i casi documentati in tutto il mondo.
Questa è una dashboard pubblica, mentre altre sono a disposizione degli enti come l’OMS.
Dai big data all’Intelligenza artificiale
Ma ci sono altre modalità in cui le tecnologie offrono un importante supporto alla comunità medico-scientifica.
Dopo aver identificato un nuovo caso, è indispensabile ricostruire gli spostamenti del soggetto colpito dal virus per determinare con chi altri potrebbe essere venuto in contatto. Non è semplice: è una attività complessa, time consuming, ma che può essere semplificata utilizzando, ad esempio, il riconoscimento facciale per identificare, rintracciare e monitorare le persone che potrebbero aver contratto il coronavirus.
Come ben spiega questo articolo pubblicato su CorCom, ad esempio il sindaco di Mosca ha comunicato che le autorità locali stanno utilizzando le tecnologie di facial recognition per garantire che le persone tornate dalla Cina rispettino il divieto di uscire di casa.
Sfruttare IoT e AI di fondo è un modo logico di utilizzare la tecnologia per impedire che malattie altamente infettive si diffondano rapidamente.
Non sorprende dunque sapere che i ricercatori impegnati nell’ambito dell’intelligenza artificiale stiano applicando tecniche di apprendimento automatico e machine learning ai social media, al web e ai canali ufficiali della sanità pubblica per cogliere i segni di ulteriori diffusione di COVID-19.
Vengono ricercati post sui social media che menzionano sintomi specifici, come problemi respiratori e febbre, da un’area geografica in cui i medici hanno segnalato potenziali casi. L’elaborazione del linguaggio naturale viene utilizzata per analizzare il testo pubblicato sui social media, ad esempio, per distinguere tra qualcuno che discute delle notizie e qualcuno che lamenta sintomi.
Come già accennato, in occasione di precedenti epidemie, inclusa la SARS, gli operatori sanitari non avevano accesso a una tale quantità di dati social, web e da mobile: nondimeno riuscire a identificare con ragionevole certezza segnali di un focolaio in un vero e proprio calderone di supposizioni, speculazioni, messaggi su sintomi che potrebbero essere assimilati a quelli di un normale raffreddore o influenza non è semplice. I modelli linguistici devono essere riqualificati per tracciare i termini che le persone userebbero in caso di sintomi leggermente differenti: si tratta di trovare l’ago in un pagliaio di big data.
La sfida non è solo identificare nuovi casi, ma usare le tecniche di machine learning e AI per comprendere come si comporta il virus, per determinare più velocemente età, sesso, condizioni cliniche, posizione delle persone maggiormente a rischio.
Monitoraggio dei voli e ricerca sui farmaci
Tra le realtà attive su questo fronte, BlueDot, una start-up con sede a San Francisco fondata dal medico infettivologo Kamran Kahn già in prima linea durante l’epidemia di SARS, ha realizzato una sofisticata piattaforma di intelligenza artificiale che elabora miliardi di dati, incrociandoli ad esempio con il tracking dei viaggi aerei in tutto il mondo, utilizza NLP (Natural Language Processing) e machine learning per elaborare grandi quantità di dati di testo non strutturati, in 65 lingue diverse, per tracciare focolai di oltre 100 malattie diverse: sono dati che consentono agli esperti sanitari di concentrare il loro tempo e le loro energie su come rispondere ai rischi di malattie infettive, piuttosto che nel raccogliere e organizzare le informazioni.
La malese Myeg Services, scrive in questo servizio CorCom, ha messo a punto un sistema che attraverso i big data riesce a mappare i cittadini a rischio, creando un profilo del rischio-salute di ogni persona utilizzando i dati storici sulla sua posizione e altri parametri.
Machine Learning e Intelligenza Artificiale sono utilizzati anche per identificare quali trai farmaci antivirali disponibili potrebbero essere studiati come potenziale trattamento: l’idea era, a partire dai pochi dati certi sul virus, trovare un farmaco già approvato che potesse bloccare il processo di infezione.
La modellazione dei dati
A sua volta, Alessandro Vespignani, computer scientist della Northeastern University di Boston, che sta lavorando sullo sviluppo di modelli predittivi associati a COVID-19, in più di una intervista rilasciata ai media americani spiega come l’approccio alla modellazione consista nell’utilizzare tutte le possibili fonti di dati.
In primo luogo, viene modellata l’epidemia per raggiungere la consapevolezza situazionale, in particolare al di fuori della Cina, tenendo anche traccia degli spostamenti delle persone dalle regioni colpite dall’epidemia.
I modelli esaminano come interventi, quali ad esempio le restrizioni di viaggio, influenzano la trasmissione della malattia, cercando di capire come la chiusura di aeroporti, trasporti, scuole riesca a contenere l’epidemia, anche se Vespignani riconosce che lo stop in Cina è arrivato forse un po’ troppo tardi per poter essere davvero efficace.
Vespignani racconta che su questi temi sono al lavoro qualcosa come 100 team di ricercatori in tutto il mondo: tutti impegnati a dare a medici e personale sanitario impegnato nella battaglia l’intelligenza per anticipare le mosse del nemico.
La questione etica
Dell’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale per contrastare le epidemie si occupa questo interessante articolo di Domenico Marino, dell’Università degli Studi di Reggio Calabria e pubblicato su Agenda Digitale. Marino sottolinea come l’AI sia strumento efficace per l’identificazione dei soggetti a rischio, per lo studio dei farmaci, per la mappatura evolutiva della malattia, ma non nasconde i problemi etici correlati a questo massivo controllo della popolazione.
Il risk management secondo il WEF
Se è chiaro che gli effetti dell’epidemia sono pesanti, anzi pesantissimi, per la popolazione, altre preoccupazioni riguardano l’effetto che queste situazioni possono avere sulla situazione economica complessiva.
Interessante, al riguardo, l’analisi proposta da World Economic Forum, che così scrive: “I governi nazionali e le agenzie sovranazionali devono trovare un giusto bilanciamento tra sicurezza sanitaria, imperativi economici e imperativi sociali sulla base di una conoscenza imperfetta e in evoluzione. È una sfida di governance che può comportare conseguenze a lungo termine per le comunità e le aziende.
Diversamente da quanto accadde con l’emergenza Ebola nell’Africa Occidentale del 2013-2016, più mortale ma meno contagiosa e più isolata e contenuta, COVID-19 si muove su una scala decisamente più ampia e con interdipendenze tali da generare non pochi problemi di gestione.
Soprattutto perché le strategie variano da Paese a Paese, con una piuttosto diffusa tendenza a minimizzare la crisi per non impattare negativamente sul proprio bilancio economico.
Ora, lasciando da parte questioni di macroeconomia, che meritano ben più ampi approfondimenti, quali sono gli effetti immediati che verosimilmente impatteranno anche sulle nostre imprese?
Innanzitutto, le restrizioni di viaggio e le quarantene che colpiscono centinaia di milioni di persone hanno lasciato le fabbriche cinesi a corto di manodopera e parti, interrompendo le supply chain just-in-time e creando allarmi in diversi settori, dai tecnologici all’automobilistico, dai beni di consumo al farmaceutico…
Si riduce in Cina il consumo di materie prime, con effetti conseguenti anche sulle filiere che servono quel mercato cinese, così come diminuiscono anche i consumi in generale, con un calo importante della domanda per i settori dei beni di lusso, dei turismo, dell’ospitalità…
Secondo il WEF, dunque, epidemie e pandemie rappresentano sia un rischio per la singola impresa, sia un amplificatore delle tendenze e delle vulnerabilità esistenti. A più lungo termine, COVID-19 può essere l’occasione perché le aziende riesaminino l’esposizione della propria supply chain in regioni soggette a epidemie e si riconfigurino su base regionale.
Oltre alle normali preoccupazioni relative alla continuità operativa, alla protezione dei dipendenti e alla conservazione del mercato, le imprese – e i paesi – dovrebbero guardare con un occhio più attento la loro esposizione a interdipendenze complesse e in evoluzione. È bene dunque investire, secondo il WEF, in una resilienza strategica, operativa e finanziaria, così da essere più pronte a fronteggiare i rischi globali emergenti.
L’importanza dei Business Continuity Plan
Più concretamente, in questo servizio pubblicato su Agenda Digitale, Federica Maria Rita Livelli, consulente in Business Continuity e Risk Management, spiega come Risk Management e Business Continuity Plan aiutino le imprese ad attuare misure preventive in modo da essere pronte ad affrontare efficacemente ed efficientemente queste tipologie di crisi attraverso l’implementazione di procedure e di piani ad hoc.
E se in fase di contingenza esistono check list di azioni da mettere in campo, dalle informative alle disinfezioni, di più ampio respiro ma necessarie sono le strategie che portano a sviluppare delle “Travel Policy” che definiscano delle regole per gli spostamenti e le missioni dei dipendenti, i piani di gestione della supply chain e della logistica, o ancora delle coperture assicurative specifiche.
Un’ultima nota: i numeri di emergenza
Un ruolo fondamentale, in questo processo di contenimento dell’epidemia, lo svolgono gli operatori dei centralini e dei numeri di emergenza. Nei giorni scorsi si sono letti a più riprese appelli a non intasare i numeri unici, con la successiva attivazione di numeri verdi.
Abbiamo avuto modo di contattare Francesco Silanos, Business Unit Manager della divisione Emergency di Beta80, che in Italia gestisce circa il 90 per cento delle infrastrutture dei numeri unici che ci ha spiegato: “Nelle regioni dove è attivo il 112 abbiamo effettuato un potenziamento delle postazioni di ascolto. La Regione Lombardia ha diramato l’obbligo di chiamare le centrali operative e il traffico dell’utenza si è riversato su questo strumento. Siamo in una situazione di maxi emergenza e di estremo carico per i nostri sistemi, che stanno reggendo bene. Nelle altre regioni dove c’è solo il 118 ci è stato chiesto di potenziare le postazioni di ascolto con l’inserimento di numeri verdi particolari”.
L’attivazione di un numero di emergenza centralizzato fa si che si possa canalizzare tutto un flusso di supporto alla popolazione, spiega ancora Silanos.
“Dato l’enorme carico delle chiamate, dobbiamo tener presente che ci possono essere tanti motivi per cui uno chiama il 112: per questo si è valutato di differenziare questo tipo di approccio dedicando a COVID-19 un numero verde. Noi seguiamo il 112 e il nostro compito è in una situazione emergenziale come questa presidiare la continuità operativa”.