La riduzione dell’impatto ambientale può rappresentare un “asset finanziario” o è più corretto considerarla nell’ambito di una strategia di risk management? La chiave di lettura con cui il mondo della finanza guarda al rapporto tra climate change e imprese appare oggi come il risultato di una doppia sintesi: da una parte ci sta il rapporto tra rischi e opportunità e dall’altra, sull’orizzonte temporale, si colloca l’attenzione al breve o al medio lungo periodo. Il rapporto tra questi fattori ci dice che in relazione al climate change per le imprese le opportunità sono maggiori rispetto ai rischi, e che è necessario guardare a questa trasformazione con la pazienza dei tempi lunghi o medio lunghi.
Climate change: se non si agisce si rischia una riduzione nel valore delle imprese
Questa sintesi permette di portare l’attenzione a uno dei temi centrali della ricerca condotta dall’Osservatorio Climate Finance della School of Management del Politecnico di Milano: la verifica del fatto che la riduzione delle emissioni per le imprese rappresenti un vantaggio competitivo che viene premiato dal mondo finanziario. Nello stesso tempo, questa verifica analizza le ragioni per cui si guarda con maggiore prudenza alle imprese che non prestano adeguata attenzione alla trasformazione ecologica, esponendosi a rischi ambientali che sono penalizzati dalla comunità finanziaria, tanto a livello di prezzo delle azioni che di valore stesso dell’impresa. Una penalizzazione che la ricerca dell’Osservatorio stima possa arrivare anche a un 5,6% di riduzione nel caso di imprese coinvolte in danni ambientali.
I rischi fisici e i rischi di transizione
Ma prima di entrare nel merito del rapporto tra rischi climatici e imprese è importante ricordare la distinzione tra i rischi fisici, legati alle manifestazioni dei fenomeni climatici stessi e i rischi di transizione determinati da una serie di variabili attorno alle quali si costruisce la strategia di sostenibilità delle imprese. In questo ambito rientrano gli effetti delle politiche climatiche, il rapporto tra carbon footprint e valore delle imprese, la valutazione dei rischi reputazionali collegati ai danni ambientali, il ruolo delle tecnologie e dell’innovazione e l’influenza che le politiche climatiche stanno esercitando in merito alle scelte strategiche sulle rilocalizzazioni produttive.
L’approccio alla gestione del rischio climatico è oggi uno dei punti chiave per capire come si stanno muovono le imprese in merito alla “E” di Environmental (volendo fare riferimento alle strategie ESG). La ricerca dell’Osservatorio, che ha preso in considerazione i CEO di imprese di diversi settori produttivi e del mondo dei servizi, mostra che l’atteggiamento più diffuso è quello “Responsabile” con il 46,4% dei consensi, seguito da un atteggiamento “Strategico” con il 32,1% e dall’atteggiamento “Responsivo” con il 17,9%. Dove l’atteggiamento Responsabile appare caratterizzato da un focus sul tema reputazionale, il Responsivo da una interpretazione del climate change come rischio finanziario nel breve periodo, mentre l’atteggiamento strategico mostra un approccio comprensivo che guarda al lungo termine.
Climate change: l’attenzione più alta è sui rischi di transizione
Dalla valutazione delle azioni legate alla mitigazione del climate change si coglie che i rischi di transizione sono quelli maggiormente indirizzati, come spiega Roberto Bianchini, direttore dell’Osservatorio Climate change finance, con il 25%, mentre nel 17,9% dei casi le azioni indirizzano i rischi fisici. Stessa percentuale invece per le imprese con azioni che indirizzano sia rischi fisici sia rischi di transizione. Preoccupante infine la quota di aziende che al 35,7% non indirizza nessuno di questi rischi.
Entrando nel merito di alcune azioni dalla ricerca ci arriva l’indicazione che il 35,7% ritiene che il climate change abbia un impatto primariamente a livello di strategie, un 39,3% delle imprese si sta muovendo con misure precise che vanno da soluzioni basate sulle rinnovabili alla emissione di green bond. Infine un 50% delle imprese è impegnato nella riduzione di emissioni prodotte da fonti fossili, mentre un 21,4% non ha preso in considerazione questa azione.
Un correlazione tra il prezzo dei certificati ETS e il rendimento di mercato.
In merito alla reazione dei mercati finanziari a fronte dell’inasprimento delle policy e dei prezzi dei certificati di emissione di anidride carbonica ETS Vincenzo Butticè, vicedirettore dell’Osservatorio Climate Finance osserva che su quasi 12.000 impianti di generazione di energia elettrica in Europa, riferiti ad aziende quotate e soggette alle policy ETS emerge una correlazione tra il prezzo dei certificati ETS e il rendimento di mercato. Il fattore chiave è dato dalla carbon intensity della società e le imprese che hanno avviato piani green hanno avuto benefici dall’aumento dei prezzi ETS, mentre chi non ha migliorato il proprio impatto ambientale è rimasto penalizzato.
Va ricordato che il meccanismo che governa i certificati ETS rappresenta un incentivo verso la produzione di energia elettrica rinnovabile imponendo l’acquisto di certificati di emissione alle imprese che utilizzano fonti inquinanti e permettendo la cessione di certificati da parte delle imprese che producono energia rinnovabile anche in misura superiore alle proprie necessità.
Climate change e aziende: come si comportano i consumatori
Per i consumatori l’attenzione al climate change e le azioni per contribuire al suo contrasto hanno un valore speciale. L’Osservatorio ha analizzato 700 società quotate tra Italia, Francia, Regno Unito e Germania che nel periodo 2020-2021 hanno presentato dati sul rischio reputazionale. Vincenzo Butticè, vicedirettore dell’Osservatorio Climate Finance osserva che una riduzione anche minima nel rating reputazionale si può tradurre in una riduzione del valore dell’impresa che può arrivare a un -5,6%. A fronte di un danno ambientale le imprese virtuose subiscono una penalizzazione maggiore rispetto alle aziende meno impegnate su questi temi e si crea una situazione che impone alle realtà con una buona reputazione un maggiore impegno per mantenerla.
Gli effetti del climate change sulle strategie di reshoring
Anche con questi atteggiamenti consumatori e stakeholder influenzano le scelte aziendali. Un altro esempio indagato dall’Osservatorio riguarda i temi della re-internazionalizzazione di multinazionali che nel passato anno portato le attività produttive in paesi che presentavano minori costi e politiche ambientali più permissive.
Questo scenario viene messo in discussione attraverso strategie di reshoring e con un ripensamento delle catene del valore globali. Roberto Bianchini porta l’attenzione sull’analisi di 126 multinazionali nel settore manifatturiero caratterizzate dalla scelta di avere portato attività produttive all’estero. Tra queste per alcune la probabilità di riportare na produzione nel paese d’origine è del 64% contro una media dell’1,5%. Le ragioni? Si tratta di aziende sottoposte al giudizio di stakeholders sempre più attenti ai temi della sostenibilità, aziende che pubblicano report di sostenibilità e operano in Stati caratterizzati da politiche ambientali sempre più rigorose.
Nell’ambito dell’Osservatorio Climate Finance si è tenuto l’intervento di Giovanni Sandri, country managere di BlackRock Italia che viene affrontato in questo articolo Finanza e climate change: il mercato premia le imprese sostenibili
Su ESG Smart Data una selezione e una sintesi delle ricerche e delle analisi sul ruolo e sulle prospettive della sostenibilità per le imprese e per le pubbliche amministrazioni.