Il titolo del servizio con cui si annunciava il voto favorevole dei paesi membri dei governi nazionali dell’Unione Europea al nuovo testo della Corporate Sustainability Due Diligence Directive era molto esplicito: La CSDDD passa, ma con tanti compromessi. In particolare, i cambiamenti più rilevanti che hanno consentito al Supply Chain Act di tornare in discussione riguardano il perimetro di azione della normativa che invece di considerare, come inizialmente proposto, le aziende attive in area UE e le enterprise con più di 500 dipendenti e un fatturato globale netto di più di 150 milioni di euro, si restringe alle aziende UE con più di 1.000 dipendenti e con un fatturato globale netto di almeno 450 milioni di euro.
Una riduzione ampiamente superiore al 50% nel numero delle aziende che avrebbero dovuto essere interessate dalla CS3DD, sulla base delle stime a suo tempo effettuate in relazione alle misure inserite nel testo approvato a dicembre 2023.
Cadono poi con questa revisione anche le disposizioni sulla responsabilità civile, l’impegno a comprendere aziende attive in settori ad alto rischio e le imprese non UE che generano almeno 20 milioni di euro nel mercato dell’UE con la produzione o con il commercio in ambiti come building, tessile e calzature, agricoltura e agroalimentare.
Da una dichiarazione di intenti a una normativa
Abbiamo chiesto a Luca Grassadonia, ESG Senior Consultant P4I e a Sergio Fumagalli, Senior Partner P4I, Team leader sostenibilità una prima riflessione sulle prospettive di questo passaggio. “Dobbiamo dire innanzitutto – osserva – che la “prima” versione della CSDDD sembrava più una dichiarazione di principi che non una vera e propria norma fatta per poter essere applicabile”.
Il compromesso che ha portato a questo nuovo testo arriva dalla necessità di andare incontro ai dubbi e alle resistenze che negli ultimi mesi erano arrivati da Germania, Francia e Italia. Questi paesi in particolare avevano fatto sentire la loro voce sottolineando in particolare che la CSDDD o Supply Chain Act rischiava di imporre regole troppo onerose finanziariamente rendendo la gestione amministrativa ancora più complessa.
“Credo – prosegue Grassadonia – che applicare una Direttiva come è stata inizialmente proposta sarebbe stato veramente molto pesante e probabilmente controproducente. È stato giusto renderla più accessibile, anche perché si correva il rischio di avere effetti imprevedibili per tante aziende impreparate a gestire logiche di controllo sulle catene di fornitura. Occorre considerare che un conto è parlare di rispetto dei diritti umani con una logica e una forma di attenzione come possiamo avere in Europa e un conto è farlo per realtà che operano in qualsiasi altra parte del pianeta. Ovviamente, il rispetto di questi diritti è sacrosanto, ma la raccolta dati per le aziende può rappresentare un ostacolo importante. Le aziende di maggiori dimensioni possono avere le risorse e la capacità di copertura per supportare i propri fornitori. Le aziende più piccole rischiano di trovarsi inadempienti o di perdere alcuni fornitori per la difficoltà di disporre di queste informazioni”.
Next step: Parlamento Europeo
Il compromesso raggiunto è anche figlio di un approccio “all’europea”, ovvero dell’avvio di un percorso che permetta alle aziende di prepararsi e di conoscere questo tipo di requirement. “Il vero tema però – osserva Sergio Fumagalli, Senior Partner P4I, Team leader sostenibilità – riguarda la possibilità che la Corporate Sustainability Due Diligence Directive riesca a passare con il nuovo testo all’esame del Parlamento Europeo. Gli ostacoli su questo percorso sono in effetti due: il rischio che con le elezioni a giugno non si riesca ad arrivare alla discussione con i tempi necessari a mantenere la maggioranza che aveva approvato il testo precedente, oppure che proprio questa convergenza, anche con questo alleggerimento delle misure, non sia più presente per ragioni politiche”.