La lettera annuale ai Ceo di Larry Fink, CEO di Blackrock, contiene sempre stimoli interessanti, anche solo perché è scritta da una persona che gestisce oltre 10.000 miliardi di dollari, 6 volte il PIL italiano. Per le aziende che stanno ponendosi oggi il problema della sostenibilità, poi, è due volte interessante perché da diversi anni questo tema è al centro della comunicazione, ogni volta visto con angolature diverse.
Il primo spunto che vorrei sottoporre all’attenzione del lettore è questo: “Ci concentriamo sulla sostenibilità non perché siamo ecologisti, ma perché siamo capitalisti e siamo legati da un rapporto fiduciario verso i nostri clienti.”
La sostenibilità è una questione che riguarda tutti
La sostenibilità del nostro sistema economico e sociale è una questione che riguarda tutti, non è figlia di un presupposto ideologico. In un’epoca di fake news in cui il 30% degli americani è convinto che Biden abbia rubato illegalmente la Presidenza a Trump, o in cui sul Covid vengono accreditate le tesi più incredibili, le imprese – ciascuna impresa, grande o piccola – devono decidere se la tesi che predica la ineluttabilità della questione ambientale e di quella sociale, cioè la fine dell’era dello sviluppo a risorse infinite e l’inizio di una nuova era, con regole del tutto diverse, se questa tesi è una bufala o se, viceversa, è vera.
Come per il Covid: mi vaccino o no? Non è una questione di fede: in entrambi i casi la scienza si è pronunciata in modo molto chiaro e ci sono evidenze innegabili. In entrambi i casi, però, ci sono spinte importanti e con grande seguito, che negano l’evidenza scientifica, sorretti da interessi pesanti. Non per niente, pochi anni fa, quando i termini del tema ambientale erano già ben chiari, Trump fece uscire gli USA dagli accordi di Parigi sottoscritti da Obama.
Se è vero che le risorse non si possono più considerare infinite, se, conseguentemente, si decide di giocare il futuro della propria azienda sulle opzioni sostenute dai fatti e dalla scienza – la sostenibilità – allora bisogna produrre fatti concreti: il greenwashing diventa una forma di autolesionismo irrazionale. L’obiettivo non può essere solo “apparire green” ma deve essere avviare per la propria azienda la transizione concreta per operare con successo nel nuovo paradigma.
Tutte le imprese saranno impegnate nella transizione verso un mondo a zero emissioni
Tornando al nostro: “Ogni impresa e ogni settore ne usciranno trasformati a causa dalla transizione verso un mondo a zero emissioni. La domanda ora è: voi sarete tra coloro che guideranno il cambiamento o tra chi sará guidato?”
Una trasformazione seria richiede tempo, non avviene in un giorno. Nel breve si può – e si deve – ottimizzare, contenere, migliorare ma cambiamenti e innovazioni profonde richiedono tempo e una maturazione culturale, organizzativa, relazionale che non è realistico pensare di realizzare se non in un orizzonte di medio periodo.
Se mai si parte, però, mai si arriva. Ed è essenziale partire con il piede giusto, avendo chiaro l’obiettivo di fondo, senza cercare scorciatoie che sono solo sprechi.
La rendicontazione è importante, che sia il bilancio di sostenibilità, la DNF o quello che ci porterà la prossima direttiva UE in materia. Ma il bilancio arriva dopo, a cose fatte: registra ciò che si è fatto. La sostenibilità è innanzitutto una strategia ed è la sua realizzazione che diventa, anno dopo anno, bilancio.
Il cuore dell’impegno, dunque, non è la rendicontazione ma la strategia e le risorse disponibili vanno impegnate tenendone conto. Misurare è essenziale, naturalmente – solo ciò che si misura può essere migliorato (è una citazione, non è farina del mio sacco) – ma non è l’obiettivo. L’obiettivo è la sostenibilità dell’impresa nel tempo e nel nuovo contesto.
I prossimi unicorni? Innovatori sostenibili
Una ulteriore considerazione che vorrei segnalare è questa: “Le prossime 1.000 imprese “unicorno” non saranno motori di ricerca o social media, bensì innovatori sostenibili e scalabili; startup che aiutano il mondo a decarbonizzarsi e rendono la transizione energetica accessibile a tutti i consumatori.” Questa previsione, se dovesse realizzarsi, segnerebbe un cambio epocale: il quarto di secolo tra il 1995 e il 2020, ha visto la nascita di Google, Facebook, Amazon e gli equivalenti cinesi, la rigenerazione di Apple e di Microsoft e così via, e ne è stato caratterizzato in profondità, cambiando la vita e le abitudini di tutti noi. Larry Fink, che gestisce 10.000 miliardi di dollari, verosimilmente investirà guidato dalla affermazione riportata sopra: difficile non tenerne conto. Vuol dire che il digitale ha fatto il suo tempo? Certamente no. Il digitale è forse il principale abilitatore della sostenibilità e della transizione verde. Vuol dire che, se alla trasformazione digitale venisse data una caratterizzazione, una finalità a supporto della sostenibilità, gli obiettivi della trasformazione conseguente sarebbero ancora più dirompenti.
Digitale e sostenibilità alla base di PNRR e strategia EU
D’altra parte, non solo il PNRR ma tutta la strategia della EU si fonda su questi due pilastri – digitale e sostenibilità – ed è lecito attendersi che tutte le politiche pubbliche si muoveranno con coerenza in questa direzione: da quelle di incentivazione alle politiche fiscali, dalla ricerca alla regolamentazione del credito e degli investimenti finanziari.
La sfida italiana non è solo riuscire a farsi assegnare effettivamente tutti i soldi previsti dai piani europei ma trasferire il messaggio all’enorme platea di PMI e anche di aziende medio grandi tirate a lucido sull’efficienza operativa, che non dispongono al loro interno di risorse culturali e organizzative sufficienti e adeguate (per ruolo, competenza, remunerazione) a gestire la trasformazione e a cogliere le opportunità connesse.
La consulenza giocherà, pertanto, un ruolo decisivo. Ma è pronta?
Sottrarre la consulenza sulla sostenibilità alle pregiudiziali ideologiche che l’hanno sorretta per decenni sarà uno snodo decisivo e ineludibile. Il compito del consulente è guidare le PMI e le aziende medio grandi a concentrare le energie disponibili su strategie che possano aumentarne il valore nel tempo, mentre perseguono – e grazie al fatto di perseguire – gli obiettivi di sostenibilità, affrontando innanzitutto temi di materialità finanziaria e rinunciando, se necessario, all’estetica, al racconto enfatico, all’immagine che può essere parte di una strategia ma non la strategia.
Il ruolo strategico della “S” di ESG
L’ultimo tema che vorrei riprendere è, per la verità, il primo che la lettera affronta: “Nessun rapporto ha subito più modifiche a causa della pandemia di quello tra datori di lavoro e dipendenti. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito, il tasso di licenziamento è ai massimi storici.”
Ancora: “La nostra ricerca mostra che le società che hanno instaurato legami solidi con i loro dipendenti hanno registrato livelli più bassi di turnover e rendimenti più alti nel corso della pandemia”.
Per finire: “Oltre a sovvertire il rapporto con il luogo fisico in cui lavoriamo, la pandemia ha anche fatto luce su questioni come l’uguaglianza etnica, l’assistenza all’infanzia e la salute mentale, rivelando il divario tra le aspettative generazionali sul lavoro.”.
Il fatto scatenante è evidentemente la pandemia ma i temi portati all’attenzione rientrano tutti a pieno titolo nella “S” di ESG che ne include, in effetti, anche altri, legati, ad esempio, al rispetto dei diritti dei lavoratori lungo tutta la catena di fornitura e al rapporto con le comunità a cui l’azienda sente di appartenere.
Si tratta, però, a ben guardare, solo di distinzioni superficiali: l’assistenza all’infanzia lega direttamente l’azienda, la parità di genere, lo sviluppo demografico e il territorio.
Accesso ai talenti come fattore abilitante per sostenere una vera trasformazione
Piuttosto, il sovvertimento del rapporto con il luogo fisico in cui lavoriamo, consente di avere uno sguardo più ampio, maggiore flessibilità nella costruzione delle risposte. Ad esempio, a certe condizioni, consente di accedere a una platea di talenti più ampia, così come consente di trasferire i benefici derivanti da una occupazione di qualità verso contesti territoriali altrimenti esclusi da cui non è più necessario emigrare, limitando le spinte allo spopolamento delle aree rurali.
E’ un quadro grande in cui ciascuna azienda deve ritagliare il percorso che consente a lei, nel suo contesto operativo concreto, di cogliere le opportunità e ridurre i rischi, sapendo che a tendere queste variabili potrebbero cambiare le dinamiche complessive e il mercato del lavoro di conseguenza.
Anche qui l’urgenza riguarda il porsi il problema, il partire: le soluzioni non sono date a priori ma devono essere costruite, contesto per contesto, settore per settore, azienda per azienda. Se ne può derivare una “colpa” non è per le eventuali risposte sbagliate ma per l’immobilismo, per la cecità. E non sarebbe una colpa morale ma una responsabilità di business, un costo, cattiva gestione.
Il CEO di Blackrock non è un guru e la sua fede cieca nella capacità del capitalismo di autorigenerarsi può essere condivisa o meno ma i punti che porta all’attenzione, in questa come nelle lettere degli anni precedenti, sono pietre in cui, se si continua a guardare da un’altra parte, prima o poi si finirà per inciampare.
Andrea Reghelin, P4I: “il livello di sostenibilità sta diventando un elemento importante per la definizione del valore delle imprese “
“La lettera del CEO di Blackrock conferma un trend già emerso da alcuni anni all’interno dei fondi di investimento, ovvero la crescente effettuazione, nell’ambito delle due diligence, di valutazioni legate alla sostenibilità delle imprese, sia in sede di analisi dell’investimento sia durante la fase di gestione. Il livello di sostenibilità, misurabile grazie a specifici rating e utilizzabile per attività di benchmarking, sta diventando un elemento importante per la definizione del valore delle imprese nel breve e lungo periodo, costituendo un asset immateriale che sfugge alle normali analisi dei bilanci d’esercizio. Risulta con evidenza che approcci burocratici alla sostenibilità o interventi disorganici motivati dal miglioramento dell’immagine aziendale non sono certo sufficienti a incidere significativamente sul proprio rating di sostenibilità. Serve un approccio strategico che sfrutti la leva della sostenibilità per aumentare il valore dell’impresa e attrarre investimenti.”
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