La più grande rivoluzione nella storia umana. Sembra una iperbole ma nel momento in cui la prospettiva temporale con cui si guarda alla storia umana arriva all’alba della produzione del cibo questa espressione assume un valore decisamente più reale. Il professor Giorgio Manzi, ordinario di Antropologia alla Sapienza Università di Roma, accademico dei Lincei e autore di numerosi libri, porta all’Agri Data Green Summit 2024 una interessantissima lettura dell’agricoltura attraverso l’evoluzione umana.
L’intervento del professor Manzi arriva dopo una serie di confronti che hanno messo al centro il ruolo dell’innovazione e dopo aver discusso del presente e del futuro. Tuttavia, per comprendere le ragioni dello scenario nel quale ci troviamo oggi, con tutte le problematiche e le incertezze che lo caratterizzano, appare necessario ricordare che l’agricoltura ha radici profonde e rappresenta (appunto) uno degli spartiacque più significativi e radicali nella storia dell’umanità.
Alla ricerca di un equilibrio tra progresso e sostenibilità ambientale
“All’alba della produzione del cibo: la più grande rivoluzione della storia umana” scegliendo questo titolo il professor Manzi ha voluto collegare la storia evolutiva dell’uomo, le trasformazioni sociali ed economiche abilitate e sostenute dall’agricoltura, con le attuali sfide dell’antropocene, sottolineando la responsabilità dell’umanità nel gestire l’equilibrio tra progresso e sostenibilità ambientale.
L’uomo inizia il suo cammino come un “parassita”. L’espressione può apparire poco felice ma rappresenta in modo molto chiaro come il tipo di sussistenza con cui gli essere umani provvedevano alla propria sopravvivenza fosse incentrato sul consumo di risorse, ovvero sulla caccia primariamente e sulla raccolta delle risorse disponibili nell’ambiente.
A fronte di questa fase la nascita dell’agricoltura e dell’allevamento hanno segnato una transizione cruciale da un modello di sussistenza basato sullo sfruttamento delle risorse naturali disponibili a una nuova strategia di sopravvivenza incentrata sulla produzione del cibo. Un rapporto nuovo con la natura che inizia ad essere interpretata, conosciuta, “guidata” e che porta alla nascita di società stanziali destinate nel tempo a trasformarsi in comunità sempre più grandi, fino ad arrivare alla costruzione di villaggi e città.
Appare evidente in questa sintesi essenziale il ruolo rivoluzionario dell’agricoltura, che trasforma il rapporto dell’uomo con la natura e con i suoi stessi simili per accendere lo sviluppo di nuovi modelli.
Nuove dinamiche sociali e un nuovo approccio alle risorse
Questa trasformazione introduce nuove dinamiche sociali, come la divisione del lavoro, come l’inizio di forme di specializzazione, come l’emergere di gerarchie e come tanti altri elementi che hanno contribuito alla trasformazione delle strutture sociali nativamente egualitarie delle comunità di cacciatori-raccoglitori. Di fatto quel principio che si può appunto definire come “egualitario” inizia, con l’agricoltura, ad evolversi in categorie sociali direttamente o indirettamente legate all’attività produttiva e in relative strutture di potere.
Questa rivoluzione è alla base delle grandi civiltà del passato e ha influenzato la storia fino ai giorni nostri. Un percorso sul quale il professor Manzi accelera per mettere in evidenza come le prime due rivoluzioni industriali non abbiano sostanzialmente cambiato l’agricoltura. Con la Terza rivoluzione industriale si sono aperte nuove sfide sostenute dalla ricerca scientifica e dall’innovazione tecnologica che si sono concretizzate in tante forme attraverso le quali si è arrivati alla modificazione attiva dell’ambiente e a forme sempre più articolate di addomesticazione e allevamento di animali. Una fase che, con un termine un po’ forte, è stata caratterizzata dalla tensione a cercare di guidare o forzare la natura.
L’impatto dell’uomo sulla terra
Gli archeologi discutono da decenni sulle cause di questo radicale cambiamento. Una delle spiegazioni più accreditate è che la spinta verso questa forma di sviluppo sia dovuta all’aumento della densità di popolazione e alla necessità di disporre di una maggiore quantità di risorse. Una necessità, o meglio ancora un bisogno primario non dissimile da quello che può aver spinto gli esseri umani quando si sono resi conto che stavano diventando troppo numerosi e che non potevano fare affidamento solo su una strategia di sopravvivenza basata sulla caccia e raccolta.
Questo spiega anche la sincronia tra i vari centri agricoli che si sono sviluppati in diverse parti del mondo, come la Mezzaluna Fertile in Medio Oriente, la Cina e l’America Centrale. Sembra quasi che nel tempo tutte queste aree abbiano raggiunto un punto critico in cui la popolazione era troppo numerosa per continuare a vivere di caccia e raccolta e si doveva avviare una nuova forma di sviluppo.
La potenza di innovazione sociale e di trasformazione economica dell’agricoltura
Questo processo ha portato a conseguenze straordinarie anche in termini di evoluzione geopolitica. Il professor Manzi richiama le ricerche di Luigi Luca Cavalli-Sforza, genetista e antropologo un pioniere nello studio della genetica delle popolazioni e delle migrazioni, studi che hanno mostrato come queste nuove tecniche di produzione del cibo, come l’allevamento e l’agricoltura, si siano diffuse dando vita a una trasformazione culturale e a un vero e proprio spostamento di popoli, ad esempio dalla Mezzaluna Fertile verso l’Europa, attraverso vari ponti di terra e mare.
Popolazioni di coloni, agricoltori e allevatori, hanno gradualmente assorbito e sostituito le popolazioni di cacciatori-raccoglitori che abitavano le terre a nord del Mediterraneo. E oggi si possono studiare queste migrazioni anche attraverso mappature genetiche, scoprendo che il nostro genoma è il risultato di un miscuglio di caratteristiche provenienti da diverse popolazioni.
I cacciatori-raccoglitori stanziali nei territori europei, vengono gradualmente sostituiti dall’ondata di agricoltori e allevatori provenienti dal Vicino Oriente. Successivamente, un’altra ondata migratoria avviene durante l’età del bronzo, con grandi diffusioni provenienti dal Caucaso. Questi movimenti cambiano la mappatura genetica delle popolazioni, e contribuiscono nello stesso tempo a cambiare il rapporto tra esseri umani e ambiente.
Manzi ha poi voluto soffermarsi sul concetto di “antropocene“, un termine con cui circa 20-25 anni fa si è voluto indicare una nuova era geologica per descrivere l‘impatto significativo dell’uomo sull’ambiente. Sebbene non ufficialmente riconosciuta dai geologi, l’antropocene è visto come un periodo di grandi trasformazioni ambientali iniziato con la transizione neolitica, quando l’agricoltura e l’allevamento iniziano a modificare profondamente l’ambiente.
Sebbene la commissione incaricata di valutare la creazione di un orizzonte stratigrafico abbia negato questa designazione, il termine antropocene resta come una sorta di monito per l’umanità, come l’invito ad affrontare sfide enormi. Sfide che oggi possono però contare su un potenziale scientifico e tecnologico, su un potenziale di conoscenza abilitato ad esempio dall’intelligenza artificiale, che è nella condizione di mitigare cambiamenti ambientali e di studiare e attuare nuove forme di adattamento.
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