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Il ruolo degli O.d.V. nella sorveglianza sulle strategie di sostenibilità



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Il ruolo degli organismi di vigilanza in relazione alla governance ESG con particolare attenzione ai settori del wealth management e del private banking nel contributo di Michele Bonsegna, Consigliere Direttivo AODV231

Pubblicato il 11 set 2024

Michele Bonsegna

Consigliere Direttivo AODV231



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Gli organismi di vigilanza ex D. Lgs. 231/2001

Era il 2001 quando il legislatore nazionale rivoluzionava l’impianto processual-penalistico italiano ammettendo la possibilità che anche una persona giuridica – e, tipicamente, un’impresa – potesse essere imputata all’interno di un procedimento penale.

    Ebbene, in aggiunta alle altre disposizioni che si occupavano di definire la natura, i presupposti e i confini di tale responsabilità degli enti, l’articolo 6 del Decreto 231 ha messo a disposizione delle società un prezioso strumento organizzativo che, pur non essendo obbligatorio, risulta peraltro indispensabile nel coadiuvare la società nel prevenire la commissione di reati all’interno del contesto aziendale.

    I modelli di organizzazione, gestione e controllo di cui all’articolo 6, infatti, altro non sono che degli insiemi di regole di condotta – più o meno ampie, a seconda della singola previsione – che presidiano l’attività d’impresa e si propongono di scongiurare il rischio che possano verificarsi illeciti di natura penale, riconducibili, oltre che alla condotta della persona fisica, anche all’inadeguatezza dei protocolli operativi adottati dalla società ovvero alla totale mancanza di simili regolamenti interni.

    Ma non basta, giacché – coerentemente con il dettato del Decreto del 2001 – la società che intenda adottare il modello organizzativo appena descritto, deve anche premurarsi di dare efficace attuazione a quel modello, per il tramite di un Organismo di Vigilanza, e cioè di un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo al quale spetta il compitodi vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento”.

    Modelli organizzativi al servizio dei fattori ESG

    La portata innovativa del decreto 231 e la larga espansione che tale normativa ha conosciuto negli ultimi anni – sia nel senso di una crescente centralità nel sistema giuridico e sia nei termini di una vastissima applicazione concreta – sono questioni note, frequentemente rimarcate dai commentatori e ormai appartenenti a un (pur recente) passato.

    Difatti accade spesso, nel mondo giuridico, che una normativa – seppur inizialmente dettata in funzione di una precisa ratio e riferita a un delimitato perimetro applicativo – attraversi poi fasi di mutazione ed espansione durante le quali l’astratto testo di legge originario si faccia “diritto vivente”, sulla scorta delle rinnovate esigenze della società, ma anche sulla scia della concreta applicazione e delle variabili interpretazioni fornite alle disposizioni originali nel momento in cui queste sono calate nel contesto della realtà. 

    Tanto è successo anche al decreto 231/2001: a distanza di oltre vent’anni dalla sua entrata in vigore, infatti, risulta notevolmente accresciuto il ventaglio di materie e fattispecie interessate in primis dal testo di legge e, per l’effetto, dai modelli organizzativi ex art. 6 e dunque dai controlli degli O.d.V..

    In altre parole, col passare del tempo, alla luce della crescente importanza riconosciuta dal legislatore alle strategie di organizzazione aziendale (si pensi, in tal senso, agli “adeguati assetti organizzativi” a cui fa riferimento il recente CCII), nonché grazie alla notevole elasticità dei Modelli organizzativi in parola, questi ultimi assolvono oggi a una funzione di gestione del rischio aziendale ad ampio spettro, dunque non più limitata alla prevenzione dei fatti-reato.

    Una globale riconversione delle attività economiche in chiave sostenibile e socialmente responsabile

    In tal senso, il processo di “legalizzazione” delle imprese intrapreso con la riforma del 2001, sembra oggi orientarsi nella direzione di una globale riconversione delle attività economiche in chiave sostenibile e socialmente responsabile.

    Vale la pena precisare un’ulteriore circostanza: una simile evoluzione dell’architettura normativa posta a governo delle attività economiche non è dipesa esclusivamente dagli interventi dei poteri legislativi di ogni livello (e, specialmente, europeo).
    Al contrario, infatti, anche il mondo economico – partendo dalle autorità di sorveglianza e giungendo fino ai consumatori finali – impone ai soggetti economici di considerare, nell’ambito delle proprie strategie aziendali, non solo gli indicatori di natura economico-finanziaria, ma anche tutti gli altri elementi riconducibili al paradigma “ESG” e dunque legati all’impatto ambientale (E), sociale (S) e di governance (G) dell’impresa.

    Gli elementi fin qui riepilogati appaiono sufficienti a sottolineare la naturale e armonica sovrapposizione tra le funzioni e i contenuti dei modelli di cui al Decreto 231 e le strategie di sostenibilità che le imprese potranno – o dovranno – adottare nei prossimi anni, sulla spinta dei poteri legislativi ed economici.

    In primo luogo, infatti, gli strumenti impiegati nel corso del processo di mappatura del rischio tipico della compliance 231, sembrano adattarsi perfettamente alla simile attività di sustainability risk assessment. Del pari, anche i sistemi di vigilanza e controllo – disciplinati dai Modelli di organizzazione e controllo e impiegati dagli Organismi di Vigilanza ex D. Lgs. 231/2001 – si prestano alla necessaria sorveglianza sulle performance di sostenibilità delle imprese: tanto è specificato, espressamente, anche dal D. Lgs. 254/2016 – recettivo della Direttiva europea sul Non-Financial Reporting – il quale stabilisce che «la dichiarazione individuale di carattere non finanziario» deve includere «a) il modello aziendale di gestione ed organizzazione delle attività dell’impresa, ivi inclusi i Modelli di organizzazione e di gestione eventualmente adottati ai sensi dell’articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, anche con riferimento alla gestione dei suddetti temi» e, cioè, con riferimento alla gestione degli obiettivi di sostenibilità.

    In ultimo, attinenze e sovrapposizioni tra la materia penale e quella della sostenibilità balzano all’occhio anche laddove si analizzino gli ambiti rilevanti ai sensi del Decreto 231 e quelli riconducibili allo spettro dei fattori ESG: basti pensare, in tal senso, ai reati ambientali (chiaramente riconducibili al fattore “Environmental”), ai reati contro la sicurezza dei lavoratori (rientranti sotto il cappello del fattore “Social”) ovvero ai reati societari, evidentemente incompatibili con una adeguata tutela del fattore “Governance”.

    La sostenibilità nel settore degli investimenti privati

      È cosa nota e rimarcata dalla totalità degli studiosi appartenenti al mondo del diritto, ma anche dell’economia e della finanza, la circostanza che anche il settore del wealth management – al pari dell’industriale o del manifatturiero – risulta oggi trainato dalle tematiche dell’innovazione tecnologica e della sostenibilità.

      Come già detto, infatti, ciò avviene sia sulla scorta delle preferenze degli investitori e sia in ragione della rapida evoluzione del framework normativo internazionale, ivi incluse le linee guida fornite dalle autorità di vigilanza. Si pensi, in tal senso, alle indicazioni fornite dalle istituzioni europee, che hanno a più riprese precisato la necessità che, nel processo di definizione delle politiche di gestione dei rischi, venga adottato un approccio olistico che consideri anche i fattori ESG e i rischi di sostenibilità nel corso della valutazione delle emittenti e della definizione delle strategie di gestione del portafoglio, oltre che nell’ambito della misurazione del merito creditizio dei soggetti privati.

      In aggiunta, è sotto gli occhi di tutti l’influenza positiva che gli investimenti privati possono generare sull’economia globale, selezionando i settori e le imprese da sostenere sulla base dei criteri ESG e supportando così la transizione dell’intera società verso la sostenibilità. È cruciale, in questo senso, il ruolo delle istituzioni finanziarie, giacché laddove queste adottino modelli di business sostenibili, tale scelta, inevitabilmente, si ripercuoterebbe a cascata sul sistema economico circostante, innescando un virtuoso meccanismo di inclusione sociale, tutela ambientale e resilienza che potrebbe, progressivamente, contagiare l’intero panorama economico, a partire dalle grandi imprese e raggiungendo, man mano, le realtà più piccole e periferiche.

      D’altro canto, un simile approccio non sembra più potersi classificare come una libera scelta: piuttosto, appare come una risposta necessaria e non rimandabile a fronte dell’elevatissima complessità della società moderna, attraversata da rapidi e profondi mutamenti legati a oscillazioni demografiche, questioni geopolitiche, variabili macroeconomiche e attanagliata da gravissime crisi sociali e ambientali. In una battuta, sembra ormai esclusa l’idea che la finanza e la ricchezza privata possano “semplicemente” adeguarsi alla trasformazione in atto, dovendosi invece ritenere che l’industria sia chiamata a guidare la transizione sostenibile, accompagnando gli Stati e gli enti sovranazionali nel fornire risposte solide e lungimiranti alle sfide globali dei nostri giorni.

      Non sorprende, pertanto, che le società di consulenza e le istituzioni finanziarie internazionali abbiano già sottolineato il forte incremento quantitativo degli investimenti ESG nel corso degli ultimi anni, stimando che nel prossimo futuro tale crescita proseguirà in maniera ancora più rapida. Tanto in ragione non solo delle aspettative e delle richieste del mercato e delle istituzioni, ma anche, semplicemente, per via dei comprovati miglioramenti delle performance economiche dimostrati dalle imprese con rating ESG più elevati, le quali godono di minori costi del capitale, ma anche di una miglior reputazione presso gli investitori, nonché di scelte strategiche orientate al medio-lungo termine e dunque garanti della continuità d’impresa.

      La risposta degli operatori del risparmio gestito, inevitabilmente, dovrà essere parimenti rapida e articolata. Gli interventi necessari, cioè, dovranno spaziare da una nuova e accresciuta attenzione per la profilazione del cliente, all’adozione di piattaforme tecnologiche idonee a integrare le valutazioni di sostenibilità nei processi di consulenza, alla dotazione di adeguate misure organizzative poste a garanzia della correttezza, della completezza, della qualità e della trasparenza delle informazioni relative all’impatto ESG degli investimenti, nonché dell’affidabilità e del grado di compliance di sostenibilità degli altri soggetti con cui vengono in contatto a vario titolo.

      I progetti di transizione, in altre parole, dovranno investire sia questioni “interne” – e cioè garantire che l’attività d’impresa sia concretamente strutturata in maniera tale da non provocare danni alle matrici ambientali e sociali circostanti – e sia verso l’esterno, e cioè relativamente all’orientamento dei capitali e delle strategie d’investimento nella direzione della sostenibilità.

      Il controllo degli O.d.V. nella prevenzione del rischio di sostenibilità

      All’esito dei ragionamenti fin qui condotti, viene da chiedersi quale possa essere il ruolo concretamente ricoperto dagli Organismi di Vigilanza di cui al Decreto 231/2001 nell’ambito del controllo sul rispetto – da parte dei soggetti operanti nel settore del Wealth Management e del Private Banking – delle normative nazionali ed europee che, a qualunque titolo, impongono alle aziende di prodigarsi nel perseguimento gli obiettivi ESG attraverso strategie di gestione organizzativa, amministrativa e contabile.

      In tal senso – e in linea con quanto affermato nelle ultime righe del precedente paragrafo – pare pertinente il riferimento a uno dei concetti cardini della Direttiva europea sul Corporate Sustainability Reporting (CSRD) e cioè al cd. principio della doppia materialità, uno dei cardini della rendicontazione della sostenibilità. Più esattamente, la valutazione della sostenibilità aziendale nel senso della doppia materialità impone un’osservazione biunivoca che consideri sia le ripercussioni dell’attività d’impresa sull’ambiente e sulla comunità di riferimento, e sia l’influenza dei fattori ESG sulla stabilità finanziaria e operativa della stessa azienda. La CSRD, cioè, richiede che le rendicontazioni di sostenibilità vengano condotte sia sotto il profilo della cd. materialità d’impatto (approccio inside-out) e dunque nei termini degli impatti dell’impresa – positivi o negativi che siano – sull’ambiente naturale e sociale circostante, e sia sotto il profilo della cd. materialità finanziaria (approccio outside-in), ossia con riferimento agli effetti che le questioni di sostenibilità generano sulla performance finanziaria dell’impresa, dunque sulla sua stabilità e capacità di crescita.

      Il ruolo della doppia materialità

      Applicare un simile approccio al settore del risparmio significa, in primis, intraprendere un percorso di completo assorbimento dei principi di sostenibilità all’interno del business model aziendale. Tanto può avvenire per il tramite di un’organizzazione del lavoro (i.e. luoghi di lavoro, direzione amministrativa e contabile, gestione del personale, governo societario) e delle politiche aziendali (i.e. decisioni legate alle strategie di investimento, considerazione dei relativi effetti sui fattori di sostenibilità, preferenza degli investimenti indirizzati, ad esempio, alle energie rinnovabili, all’agricoltura sostenibile, all’assistenza sanitaria ovvero alle innovazioni in campo alimentare e infrastrutturale) che siano coerenti con i principi di sostenibilità e dunque idonee a minimizzare gli effetti negativi dell’attività svolta e a promuovere sviluppo sostenibile dell’intera società.

      In secondo luogo, riflettendo il citato metodo outside-in, orientare la consulenza finanziaria nella direzione della sostenibilità comporta la necessaria considerazione, nella costruzione di un portafoglio, delle specificità degli investimenti ESG, come la minore volatilità degli investimenti rispetto al benchmark nel lungo termine e i minori rischi di rendimento sull’orizzonte di medio-lungo periodo, con la conseguente esclusione degli investitori che denotano un approccio altamente speculativo.

      Nell’ambito di un simile progetto di transizione – a partire dalla fase di progettazione, dunque durante la realizzazione delle misure individuate, nonché rispetto alle attività di controllo e verifica della correttezza delle azioni intraprese e della loro coerenza con gli obiettivi di sostenibilità individuati – appare innegabile la crucialità del ruolo di tutti soggetti chiamati a coadiuvare il consulente finanziario. Segnatamente, il riferimento è agli Organismi di Vigilanza di cui al Decreto 231/01: tanto in virtù delle considerazioni svolte nei paragrafi precedenti e cioè, in sintesi, in forza della naturale vocazione all’attività di valutazione e gestione dei rischi che è propria di simili Organismi, nonché in ragione della comprovata e decisiva utilità delle misure organizzative compendiate nei Modelli 231 nel garantire la massima corrispondenza tra i principi ispiratori dell’attività d’impresa e delle strategie adottate e quanto concretamente realizzato nel corso delle operazioni svolte quotidianamente.

      Difatti, a partire dai generali principi di comportamento riepilogati nei codici etici aziendali e arrivando fino alle istruzioni esecutive di dettaglio contenute dalle singole procedure appartenenti alla parte speciale dei Modelli, la dotazione, da parte dell’operatore finanziario, di un simile strumento organizzativo, costituisce non solo un prezioso strumento operativo a disposizione del consulente, ma anche sostanziale garanzia della sostenibilità delle opportunità di investimento proposte, nonché del grado di compliance con le normative rilevanti in fatto di trasparenza, completezza e veridicità delle informazioni e, per estensione, di prevenzione delle sanzioni legate al cd. Greenwashing e alle altre pratiche commerciali illecite.

      In aggiunta, risulta ancor più cruciale il ruolo di un Organismo di Vigilanza se si considera la funzione di monitoraggio legislativo e aggiornamento dei modelli organizzativi di cui l’O.d.V. è titolare: tanto in ragione della rapidissima evoluzione della normativa di settore, della frequente complessità della stessa e della stringente necessità di coordinarla con la previgente legislazione posta a governo delle attività economiche in generale (si pensi, in tal senso, alle leggi sugli illeciti societari, ovvero sul riciclaggio di denaro, ovvero ancora sulla privacy, sulla qualità dei prodotti, sulla trasparenza contabile e via dicendo).

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