Qualche anno fa il World Economic Forum ha scelto alzare il livello di attenzione sui temi legati alle competenze, alle sensibilità e alle responsabilità dei board aziendali in relazione alle trasformazioni imposte dai cambiamenti climatici. (QUI un riferimento al percorso intrapreso dal WEF n.d.r.). Con quell’iniziativa ha preso forma negli anni un piano specifico di sviluppo della governance del climate change espressamente indirizzato ai CdA. Un percorso e una serie di iniziative finalizzate a creare una cultura aziendale capace di affrontare i temi climatici in forma strategica e non più solo a fronte di emergenze o su base volontaristica.
In seguito ai confronti che hanno accompagnato quell’operazione sono nate delle iniziative locali in diversi Paesi denominate Climate Governance Initiative espressamente progettate per sostenere un dibattito e un confronto su questi temi e per fornire formazione ai CdA che sceglievano di muoversi in questa direzione. In Italia il testimone di questa operazione è stato affidato all’associazione degli amministratori indipendenti Nedcommunity nel rispetto dell’obiettivo originario indirizzato alla promozione di una cultura manageriale più attenta al clima e di creazione e sviluppo di strategie appropriate. Per approfondire i temi legati all’impegno e al coinvolgimento dei board sui temi del cambiamento climatico abbiamo scelto di confrontarci con Silvia Stefini, Presidente Chapter Zero Italy, Nedcommunity Climate Forum
A che punto siamo oggi in relazione al rapporto tra cambiamento climatico e corporate governance? Come e quanto stanno cambiando le aziende?
La buona governance aziendale dice che i consigli di amministrazione devono guardare alla sostenibilità dell’azienda dal punto di vista finanziario, ma devono anche sviluppare una visione strategica a lungo termine in grado di garantire il futuro dell’azienda. In questo senso, il cambiamento climatico per tutti gli impatti diretti e indiretti sull’evoluzione dei mercati e delle attività delle aziende, deve essere considerato un driver fondamentale della corporate governance.
Si deve poi aggiungere che l’approccio al climate change rappresenta per i board una sorta di test sulla qualità della governance. La valutazione degli effetti dei cambiamenti climatici impone agli amministratori a pensare al lungo termine. Per queste ragioni primariamente, e naturalmente per tante altre, la relazione tra cambiamento climatico e corporate governance è oggi sempre più diretta.
Quali fattori hanno messo in moto questa evoluzione?
Gli impegni assunti con l’Accordo di Parigi nel 2015 hanno segnato un momento di passaggio importante. Il crescente impegno da parte dei regolatori, il ruolo attivo della business community e degli investitori hanno insieme generato una notevole pressione. A livello di competenze manageriali e di iniziative sono stati fatti grossi passi in avanti e in molte realtà si pensa allo sviluppo dei prodotti in funzione del cambiamento climatico, si ripensano i processi in ottica di miglioramento di efficienza e di costi, ma anche di impatto ambientale. La sostenibilità è entrata nelle agende dei manager e questo processo è stato accompagnato anche da una evoluzione negli skill professionali.
Se guardiamo invece al board siamo più timidi. I CdA sono coinvolti nel cambiamento climatico più dal punto di vista regolatorio e un po’ meno dal punto di vista di posizionamento strategico dell’azienda, anche se ci sono molte differenze in funzione delle dimensioni aziendali e dei settori di appartenenza.
Vediamo appunto come sta cambiando l’attenzione e la sensibilità dei board verso i temi climatici? Che ruolo stanno svolgendo temi come quelli della doppia materialità?
Sicuramente il cambiamento forte viene dalla regolamentazione e da come i regolatori hanno voluto sensibilizzare il mondo del business. Il momento critico a livello di coinvolgimento è avvenuto con la pubblicazione delle prime DNF. Negli ultimi due anni si è iniziato a parlare di doppia materialità e ancora una volta l’input è arrivato dai regolatori.
È importante però analizzare questi temi con una distinzione settoriale. Da un lato abbiamo le imprese dell’energia così come quelle dei settori più energivori, gli hard-to-abate per intenderci, che hanno già iniziato da tempo questo cammino. Si tratta di un percorso che è partito anche 10 o 15 anni fa e che si è sviluppato in modo graduale sino alle accelerazioni che hanno caratterizzato questi ultimi anni. In queste realtà il coinvolgimento dei CdA e anche la maturità delle discussioni risulta più evoluta.
Nel settore finanziario, nelle assicurazioni si tratta sempre di temi strategici, ma che impattano sulle logiche di business e non sulla necessità di agire direttamente su un “proprio impatto ambientale”. Nel caso poi delle banche si sente primariamente la spinta dalle richieste regolatorie e delle autorità di vigilanza.
Altri settori come manifatturiero, agroalimentare e moda sono ovviamente impattati dal cambiamento climatico in modo notevole, ma non hanno la stessa considerazione di urgenza del tema che si osserva nel mondo hard-to-abate.
Che ruolo svolge, in questo processo, l’ESG?
Sicuramente il movimento ESG ha avuto un ruolo principale nella spinta iniziale. La forza trasformativa dipende dall’impatto che il cambiamento climatico ha sul business, sulla competitività e in definitiva sulla dimensione finanziaria.
Non è un caso che l’interesse alle tematiche ESG venga dagli investitori che hanno un portafoglio di attività su cui non hanno un controllo diretto e hanno dunque bisogno di responsabilizzare le società anche su questi risultati. Nell’acronimo ESG la parte ambientale è molto importante dal punto di vista finanziario e degli investimenti richiesti. Mentre lato Social si riescono a gestire iniziative con limitati investimenti. In altre parole il rispetto degli obiettivi Environmental comporta spesso un cambiamento del business model con un forte impegno economico e una forte capacità di trasformazione dal punto di vista dei modelli organizzativi e dei processi.
Siamo poi in una fase in cui gli stessi fondi che hanno spinto nella direzione ESG ora esprimono la necessità di analizzare nel dettaglio i risultati raggiunti dalle imprese nelle quali hanno investito per verificare se le promesse ESG sono state effettivamente mantenute. C’è oggi una forte attenzione ai rischi di greenwashing. Se fino a qualche anno fa si poteva procedere con impegni e dichiarazioni, adesso sono gli stessi investitori a chiedere prove concrete sui risultati raggiunti. La parola chiave è rendicontazione.
Come sta evolvendo nello specifico il rapporto tra corporate governance e risk management in relazione in particolare ai rischi climatici?
Ritengo che la disciplina del risk management stia diventando sempre più strategica, anche a fronte dei grandi shock che abbiamo vissuto, e per questo è di grande aiuto alla corporate governance: c’è un grande bisogno di interpretare i segnali e metterli in connessione tra loro per poter prendere decisioni lungimiranti.
Oggi siamo in una fase in cui conviviamo con alcuni “rinoceronti grigi”, da intendersi come quei rischi di cui rileviamo costantemente tante evidenze ma che ignoriamo e che restano in mezzo a noi, come descritto dal libro di Michele Wucker recentemente tradotto in Italia. È un po’ quello che accade al grande tema del cambiamento climatico.
Abbiamo vissuto dei “cigni neri”, delle gravissime crisi, inaspettate, come la pandemia o come la crisi finanziaria del 2008, ma per il cambiamento climatico, non si può dire che sia così. Le evidenze ci sono tutte e il ruolo del risk manager comporta esattamente la capacità di guardare al di là dei dati storici, di effettuare collegamenti tra elementi diversi e capire quali effetti e rischi possono generare.
Con il cambiamento climatico il risk management è diventato più strategico, può contare su molti più dati ed è nella condizione di intuire anche ciò che i dati storici non dicono, almeno non direttamente. In questo modo e nel momento in cui è fortemente collegato alle altre funzioni dell’organizzazione il risk manager è nella condizione di esprimere una visione all’azienda ed è anche la figura che può cogliere quando e come i rischi possono essere trasformati in opportunità.
Guardiamo anche come sta cambiando la governance delle imprese in relazione ai temi Nature-Based, che stanno diventando sempre più rilevanti in relazione alla gestione delle strategie aziendali?
I framework che si stanno indirizzando verso i temi della natura sono a mio avviso più facili da capire e da incorporare nel business delle imprese di quanto non sia per i temi climatici e per le emissioni in modo particolare.
Parlare di emissioni di gas serra in un CdA è difficile. Le emissioni non si vedono, non è sempre evidente e chiaro quando colpiranno e chi e, a meno che non si verifichino emergenze, non è facile intrattenere conversazioni strategiche su questa specifica tematica. Se invece si parla di natura, di utilizzo dell’acqua, del suolo, di inquinamento, di circolarità, di riutilizzo delle materie prime, si incontra un’attenzione diretta su risorse che tutti riescono a identificare in modo chiaro.
I nature-based framework permettono di capire l’impatto del territorio e consentono di vivere in modo diretto le responsabilità territoriali di un’azienda.
Il grande tema a questo riguardo attiene allo sforzo avviato per rendicontare sulla natura. L’aspetto quantitativo può essere complicato, ma ci sono già metriche in tema di acqua e suolo e c’è la Task Force on Nature-relative Financial Disclosures TNFD che promette di avere un impatto più veloce rispetto ai temi climatici, così come gli standard GRI hanno già emesso le prime linee guida.
La necessità di disporre di scenari sempre più precisi e affidabili sta alzando il livello di attenzione delle imprese verso logiche data driven: quali strumenti e modelli organizzativi stanno rispondendo a vostro avviso alla necessità di conoscenza e analisi dei fattori di rischio?
Sicuramente la tecnologia è fondamentale per lo sviluppo del business e la trasformazione climatica-ambientale. Per poter avere un impatto bisogna poter misurare e monitorare, fattori possibili in modo preciso e tempestivo solo con il digitale. Questo ha portato ad un aumento delle competenze analitiche e della capacità di elaborare più scenari in relazione alle prospettive delle aziende.
Il CdA di fatto deve capire come il business sta evolvendo e avere la capacità di collegare diverse esperienze e recuperare all’interno o all’esterno le competenze necessarie per affrontarle. In merito al tema specifico degli scenari va detto che il CdA non deve cercare scenari precisi e affidabili, ma utilizzare scenari alternativi e tutti probabili per aumentare la capacità di gestire le crisi o per preparare delle trasformazioni importanti.
Quali sono le competenze chiave dei board nella gestione della governance dei cambiamenti climatici?
Le competenze più efficaci nel board sono quelle che fanno leva su una capacità analitica – intesa come comprensione dei dati – e su risorse in grado di trasformarla in una visione. Competenze che devono essere integrate con una specifica conoscenza del settore di appartenenza e competenze che devono consentire di presidiare la sostenibilità delle imprese in tutte le dimensioni tra cui anche quella legata alla trasformazione del business.