La trasformazione avviata nel segno della sostenibilità è un fenomeno a cui ormai nessuna azienda può sottrarsi. Per certi aspetti, anche in ragione del sostegno che sta raccogliendo presso consumatori, cittadini e operatori, è un “segno dei tempi”, un carattere distintivo di questa fase culturale, sociale ed economica. E la dimensione economica, anche se in molte circostanze sembra sopraggiungere a corredo della trasformazione sociale, non è meno importante, sia perché l’economia è condizionata pesantemente da questa trasformazione, sia perché può giocare (anzi, sta già giocando) un ruolo importantissimo. Un “gioco” che fuor di metafora significa capacità di cogliere le nuove opportunità di sviluppo che si stanno presentando.
Ma il passaggio da una sostenibilità sostenuta prevalentemente da principi etici e dalla responsabilità sociale a una sostenibilità che cambia le regole nella “generazione di valore” è contrassegnata dall’affermazione di quel fenomeno che sta sotto l’acronimo ESG: Environmental, Social e Governance.
Di questo passaggio e della trasformazione economica strettamente legata alla “sustainability transformation” abbiamo discusso con Andrea Sartori, Senior Consultant e Responsabile Finanza Sostenibile nell’area Consulenza di ALTIS – Alta Scuola Impresa e Società dell’ Università Cattolica del Sacro Cuore
Iniziamo con una introduzione ad ALTIS e al vostro percorso di studio e di ricerca sui temi della sostenibilità in ambito economico, della responsabilità sociale e dell’ESG
ALTIS nasce nel 2005 dal Prof. Mario Molteni e da un gruppo di docenti di management che inizia a guardare proprio alla responsabilità sociale, poi evolutasi nel concetto di sostenibilità, sia non solo sotto un profilo etico, ma anche come fonte di un nuovo vantaggio competitivo per le imprese e per i sistemi economici. L’intuizione originaria è stata poi confermata dall’evidenza empirica e dall’evoluzione che il concetto di sostenibilità ha vissuto in questi ultimi anni. Penso sia ormai una percezione comune a tante imprese che la competizione, specialmente su alcuni mercati, si gioca sempre di più sulla sostenibilità della produzione e in generale sulla relazione con gli stakeholder.
Quali sono a tuo avviso i fattori chiave che mettono la sostenibilità in diretta relazione con la competitività?
Una esemplificazione immediata dei fattori chiave o delle dinamiche attraverso cui si generano vantaggi competitivi è offerta dalla crescita di interesse per la reputazione aziendale. Le imprese che si caratterizzano per una particolare attenzione ai fattori ambientali e sociali, come per esempio la gestione delle risorse umane o dei rapporti con le comunità locali, sono generalmente in grado di attrarre maggiormente l’attenzione dei consumatori e di stabilire una migliore relazione di fiducia con i propri portatori di interesse.
Tutto sommato, però, la reputazione è solo la punta di un iceberg, nel senso che un approccio strategico alla sostenibilità è legato in maniera indissolubile a tre tipologie di processi di innovazione: innovazione di prodotto, di processo e dei modelli di business.
In generale, l’innovazione di prodotto, nel senso della creazione di prodotti in grado di rispondere a esigenze e bisogni nuovi, come quelli che si manifestano sempre più frequentemente su alcuni mercati, minimizzando gli impatti negativi e massimizzando quelli positivi, è oggi una delle forme attraverso cui l’industria sta letteralmente cambiando volto. Ma allo stesso tempo sostenibilità vuol anche dire cambiare i processi, quindi miglioramento dei livelli di efficienza nei sistemi produttivi, capacità di utilizzare in maniera razionale le risorse e ridurre progressivamente qualsiasi forma di spreco con ovvi benefici anche in termini di cost saving.
Possiamo affermare che la corretta gestione delle risorse naturali e ambientali necessarie per i processi di produzione rappresenta un valore reputazionale che incide sui risultati aziendali?
Assolutamente sì. E tutto questo richiede competenze, tecnologie e capacità di utilizzare al meglio le soluzioni esistenti. Si tratta di una “partita” che si gioca sul terreno dell’utilizzo delle best available technologies e sulla capacità di innovare costantemente i processi in maniera spesso incrementale e talvolta anche in modo disruptive. Ma forse, il terreno di innovazione più ambizioso e decisivo ancora è quello dei modelli di produzione e dei modelli dei business. Assistiamo sempre più, infatti, al passaggio a nuove modalità di progettazione e produzione e a nuove modalità di definire la relazione con il mercato e con il cliente. Una prima tendenza che si osserva in questo senso è un ripensamento profondo delle catene di fornitura e della sua gestione.
La maggiore consapevolezza dei rischi che ha accompagnato la pandemia Covid-19 ha contribuito a cambiare il rapporto con le supply chain?
Certamente, la pandemia ha intensificato la consapevolezza, già piuttosto diffusa, dei rischi legati agli impatti ambientali e sociali delle catene di fornitura – si pensi al mancato rispetto dei diritti umani, che può avere gravi ripercussioni sulla reputazione di una impresa – ma anche dei rischi per la stessa continuità del business legati al contesto geopolitico. Questa esperienza sta portando le imprese a riprogettare i modelli di supply chain management esercitando un controllo e un presidio maggiore su tutte le fasi e, in alcuni casi, re-internalizzandone o ri-localizzandone una parte verso contesti a minore rischio. Nello stesso tempo, si vedono sempre più imprese che cercano di “chiudere la catena del valore” attivandosi per gestire e supportare i propri clienti in una migliore gestione del fine vita del prodotto. Si assiste, in particolare, a una crescita dei servizi di riparazione per aumentare la durata della vita del prodotto e delle azioni di product take back volte a favorirne il recupero: percorsi che avvicinano a modelli di economia circolare determinando un cambiamento profondo del modello di business.
Sino a qualche anno fa, l’economia lineare e l’economa circolare rappresentavano due “poli” contrapposti, ora sono separati da tanti modelli intermedi. Come sta cambiando la relazione tra imprese, prodotti e i clienti?
L’economia circolare sta diventando un’area e un tema pervasivo in tantissimi settori. Sulla base della nostra esperienza ci sono ancora tanti modi e tanti livelli di interpretazione del concetto di economia circolare. Capita spesso di trovare imprese che dichiarano di improntare i propri processi ai criteri dell’economia circolare, ma di fatto si limitano ad agire sulla dimensione del packaging riducendone il volume o scegliendo materiali con minori impatti ambientali. Questo va benissimo, ma è solo una parte delle tante possibilità che un’applicazione completa dei principi di ecodesign o circular design consente. A volte ci si limita alle cose più “semplici”, che consentono di ottenere un ritorno immediato a livello di comunicazione, quando invece la sfida vera è proprio nella riprogettazione e nel ripensamento di un intero modello di produzione dall’inizio alla fine.
Scriviamo sempre più spesso della evoluzione da una generazione di valore per gli shareholders a una generazione di valore per gli stakeholders. Cosa sta cambiando nel “senso del valore” per le aziende?
Non so dire se stia cambiando il valore delle imprese, certamente ci si sta rendendo conto della multidimensionalità intrinseca al valore dell’impresa. Faccio un esempio. Un paio di anni fa hanno suscitato scalpore alcune dichiarazioni in cui si sosteneva che la finalità dell’impresa non è solo “staccare dividendi”, ma anche soddisfare le legittime aspettative, gli interessi di tutti gli stakeholder, nell’accezione di tutti coloro che contribuiscono direttamente e indirettamente alla vita stessa dell’impresa. Sono parole che hanno avuto una forte eco mediatica, ma che non sono certo nuove in assoluto in quanto, anche nella teoria aziendalistica italiana, è ben consolidata l’idea di impresa come istituto economico finalizzato al perseguimento di fini economici, che consistono nella remunerazione dell’azionista ovviamente ma anche del lavoratore, e al perseguimento di un bene comune che ha anche connotazioni sociali. Un valore che è scritto non solo sui manuali ma anche nel DNA di tante imprese, soprattutto di tantissime PMI che operano e vivono in una dimensione territoriale.
Possiamo però dire che adesso c’è una maggiore consapevolezza sul ruolo degli Stakeholder, sia per la loro capacità di generare valore sia per la capacità di ridurre i rischi che possono compromettere la generazione di valore?
Indubbiamente c’è una maggiore consapevolezza dell’apporto che i vari stakeholder sono in grado di portare all’impresa e al perseguimento dei suoi risultati economico-finanziari. Nello stesso tempo, specularmente, c’è la consapevolezza degli impatti positivi che le imprese possono generare sulle persone che la compongono, sui territori e sulle stesse catene del valore globali. Non è un cambiamento ontologico, ma è una evoluzione culturale che ha accelerato un’evoluzione delle metodologie di valutazione delle performance. I criteri ESG sono sempre più integrati non solo nelle strategie degli investitori, ma rappresentano sempre più un parametro di autovalutazione e di auto misurazione a cui le imprese fanno ricorso. La grande sfida aperta, a livello metodologico e culturale, è nello sviluppo di un framework che rendano più esplicito il legame tra le performance non finanziarie e quelle finanziarie.
La crisi dovuta alla pandemia ha dimostrato che le aziende con un forte senso di responsabilità rispetto al territorio sono più resilienti. Possiamo dire che la responsabilità sociale e l’ESG contribuiscono a ridurre i fattori di rischio?
È verissimo. Non solo: il Covid con tutti i danni enormi che ha prodotto, ha cambiato l’ordine di rilevanza relativo alle varie aree ESG. Relativamente alla finanza sostenibile la grande novità nel 2020 e 2021 è stata la crescita enorme dei social bonds rispetto ai bond. Un report di Unicredit (QUI in report originale) ci dice che l’emissione dei green bond è stabile, mentre, partendo da livelli bassi, è fortemente aumentata l’emissione di titoli a impatto sociale. Questo è un fenomeno rilevante a livello finanziario che mostra importanti riflessi all’interno delle imprese. In altre parole, se sino a poco tempo fa, prevaleva un’accezione principalmente ambientale della sostenibilità, adesso questa dimensione è più completa. Si torna un po’ alla visione iniziale in cui la dimensione ambientale e quella sociale hanno pari dignità e priorità.
Spostandoci invece al tema della rendicontazione della sostenibilità, quali sono i fattori chiave che segnano il passaggio dal rischio “greenwashing” all’affidabilità?
Noi teniamo tantissimo a distinguere con attenzione la rendicontazione dalla comunicazione, che spesso vengono confuse. Data l’importanza che anche nelle aspettative dei consumatori assumono i fattori della sostenibilità, c’è una tendenza quasi spasmodica a comunicare le proprie azioni ambientali. Ormai, il 50% delle pubblicità è focalizzato sulla sostenibilità. Nello stesso tempo anche i consumatori hanno alzato le “antenne” , sentono la necessità di verificare l’attendibilità dei claim e delle dichiarazioni delle imprese.
Quello che noi intendiamo come rendicontazione è qualcosa di più profondo rispetto alla comunicazione, che pure svolge un ruolo importante. “Rendere conto vuol dire rendersi conto“: la rendicontazione è quella fase della valutazione delle proprie performance e della propria capacità di gestire in modo più o meno efficace le varie tematiche della sostenibilità ambientale, sociale e di governance a beneficio degli stakeholders. Si tratta di fornire agli stakeholder, interni ed esterni, una rappresentazione attendibile di ciò che l’azienda sta facendo e di come si sta muovendo, raccogliendo nello stesso tempo una base importantissima di dati che possono permettere all’impresa di migliorare il proprio posizionamento strategico e definire delle strategie di sostenibilità individuando obiettivi prioritari, punti di forza e spazi di miglioramento.
Quali sono i fattori chiave che segnano la differenza tra i valori “tradizionali” della sostenibilità e l’ESG?
Per quella che è la nostra visione ed esperienza l’ESG non è tanto un’evoluzione del concetto di sostenibilità quanto una declinazione, un’interpretazione tecnica dei contenuti della sostenibilità. I cosiddetti criteri o indicatori ESG sono uno strumento che aiuta gli investitori, ma anche le stesse imprese, a definire più concretamente e specificamente cosa si intende per sostenibilità, vale a dire quali sono i temi ambierntali, sociali e di governance maggiormente rilevanti da un punto di vista finanziario e non, e misurare su di essi le proprie performance. Il termine ESG viene utilizzato soprattutto in ambito finanziario ed è diventato l’acronimo che sintetizza la concezione di sostenibilità dei finanziatori, che poi si trasmette a catena sul mondo delle imprese in quanto oggetto di valutazione e in quanto aiuta a definire dei criteri idealmente più oggettivi e precisi per valutare le performance socio-ambientali e di governance.
Possiamo dire che c’è ancora un problema di uniformità e coerenza tra i vari modelli di rating?
Sì, il tema della divergenza delle metodologie di valutazione dell’ESG è probabilmente uno dei freni che più rallentano la crescita della finanza sostenibile, anche in termini di engagement delle imprese. Allo stato attuale c’è ancora una certa confusione, dovuta alla compresenza di molti modelli che non sempre “si parlano” tra loro: dobbiamo pensare alle PMI che sono chiamate a compilare un certo numero di questionari concepiti in modo diverso e alla necessità poi di ricondurre tutto ad una rappresentazione unitaria della performance e dell’efficacia dei dati ESG. Non è semplice. Negli ultimi anni, tuttavia, si assiste a una lenta ma graduale convergenza, dovuta anche a una progressiva concertazione del mercato dei provider…
Qual è il ruolo dell’innovazione digitale in relazione alle tematiche di sostenibilità e ESG?
È sicuramente fondamentale e sempre più importante. In termini strettamente di rendicontazione adesso c’è una forte spinta da parte degli investitori e della Commissione Europea verso una digitalizzazione delle informazioni ESG tramite tecnologie che, nella nuova proposta di direttiva europea sulla rendicontazione, mirano a migliorare l’accessibilità dei dati per gli analisti e gli investitori. In questo senso, il digitale interviene nella raccolta e nell’analisi dei dati relativi alle performance ambientali e sociali, alimentando anche i sistemi di reportistica interna a supporto delle decisioni di business: una dimensione in cui tutte le tecnologie di AI e IoT giocheranno un ruolo sempre più pervasivo e importante permettendo di estrarre dati da una molteplicità di fonti, in tempo reale. Il rischio a cui occorre prestare attenzione, in una tendenza di questo tipo, è quello di mettere in secondo piano il cosiddetto human factor, perché, al di là dei numeri, c’è sempre una serie di considerazioni qualitative che aiutano a contestualizzare e interpretare meglio l’indicatore numerico, arricchendo gli stessi bilanci di sostenibilità.