L’Italia si conferma regina europea dell’economia circolare. Il Paese è infatti primo, tra le cinque principali economie europee, nella classifica per indice di circolarità, il valore attribuito secondo il grado di uso efficiente delle risorse in cinque categorie: produzione, consumo, gestione rifiuti, mercato delle materie prime seconde, investimenti e occupazione. Sul podio, ancora ben distanziate, anche Germania e Francia, con 11 e 12 punti in meno. Ma le cose stanno piano piano cambiando: a minacciare un primato che è anche un asset per l’economia italiana è la crescita veloce di Francia e Polonia, che migliorano la loro performance con, rispettivamente, più 7 e più 2 punti di tasso di circolarità nell’ultimo anno, mentre l’Italia segna il passo.
È quanto emerge dal “Rapporto nazionale sull’economia circolare in Italia” 2020, realizzato dal CenCircular economy network, la rete promossa dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile e da 14 aziende e associazioni di impresa, e da Enea. Il Rapporto, presentato nei giorni scorsi in streaming dal presidente Cen Edo Ronchi e dal direttore del Dipartimento sostenibilità dei sistemi produttivi e territoriali Enea Roberto Morabito, rivela, tra le varie cose, che ogni abitante della Terra utilizza più di 11mila chili di materiali all’anno. Un terzo si trasforma in breve tempo in rifiuto e finisce per lo più in discarica, solo un altro terzo è ancora in uso dopo appena 12 mesi, mentre il consumo di materiali cresce a un ritmo doppio di quello della popolazione mondiale. Per uscire da quella che viene chiamata economia estrattivista – e che è responsabile di buona parte della crisi climatica e ambientale, a cominciare dall’invasione dell’usa e getta – la soluzione è ormai nota e si chiama economia circolare: materiali e anche oggetti che possono essere riciclati e riutilizzati più e più volte. Ed è in questo campo che l’Italia può vantare ancora il suo primato.
“Nell’economia circolare, l’Italia è partita con il piede giusto e ancora oggi si conferma tra i Paesi con maggiore valore economico generato per unità di consumo di materia”, commenta Edo Ronchi. “Sotto il profilo del lavoro, siamo secondi solo alla Germania, con 517mila occupati contro 659mila. Percentualmente le persone che nel nostro Paese vengono impiegate nei settori ‘circolari’ sono il 2,06% del totale, valore superiore alla media Ue 28 che è dell’1,7%. Ma oggi registriamo segnali di un rallentamento, precedente anche alla crisi del coronavirus, mentre altri Paesi si sono messi a correre: in Italia gli occupati nell’economia circolare tra il 2008 e il 2017 sono diminuiti dell’1%. È un paradosso che, proprio ora che l’Europa ha varato il pacchetto di misure per lo sviluppo dell’economia circolare, il nostro Paese non riesca a far crescere questi numeri”.
Italia penalizzata dalla scarsità degli investimenti
L’Italia di fatto utilizza al meglio le scarse risorse destinate all’avanzamento tecnologico e ha un buon indice di efficienza (per ogni chilo di risorsa consumata si generano 3,5 euro di Pil, contro una media europea di 2,24). Ma è penalizzata dalla scarsità degli investimenti – che si traduce in carenza di ecoinnovazione (siamo all’ultimo posto per brevetti) – e dalle criticità sul fronte normativo: mancano ancora la Strategia nazionale e il Piano di azione per l’economia circolare, due strumenti che potrebbero servire al Paese anche per avviare un percorso di uscita dai danni economici e sociali prodotti dall’epidemia del coronavirus ancora in corso.
Quest’anno il Rapporto del Circular Economy Network si presenta in forma più ampia. Include un approfondimento sulla bioeconomia e sul suo ruolo nel contesto della crisi climatica, con il punto sulle principali misure di carattere strategico, normativo ed economico adottate in materia di economia circolare a livello nazionale ed europeo.
“Il Rapporto conferma come l’Italia sia ai primi posti tra le grandi economie europee in molto settori dell’economia circolare”, evidenzia Roberto Morabito di Enea. “Tuttavia, l’andamento temporale degli indicatori mostra purtroppo un peggioramento per il nostro Paese. Stiamo pericolosamente rallentando e se continuiamo così corriamo il rischio di essere presto superati dagli altri Paesi, che invece nel frattempo stanno accelerando. Serve un intervento sistemico con la realizzazione di infrastrutture e impianti, con maggiori investimenti nell’innovazione e, soprattutto, con strumenti di governance efficaci, quali l’Agenzia nazionale per l’economia circolare”.
Cresce il valore della bioeconomia: importante indirizzarla verso la sostenibilità
Un segnale incoraggiante arriva però dalla bioeconomia. Il comparto cresce di valore e peso complessivo: secondo il Rapporto Cen, infatti, in Europa ha fatturato 2.300 miliardi di euro con 18 milioni di occupati nell’anno 2015. In Italia l’insieme delle attività connesse alla bioeconomia registra un fatturato di oltre 312 miliardi di euro e circa 1,9 milioni di persone impiegate (177 volte i dipendenti dell’Ilva). I comparti che contribuiscono maggiormente al valore economico (63%) e occupazionale (73%) della bioeconomia sono l’industria alimentare, delle bevande e del tabacco e quello della produzione primaria (agricoltura, silvicoltura e pesca).
Si tratta di settori di peso rilevante e di attività che hanno un ruolo fondamentale nel rapporto con il capitale naturale: indirizzarli in direzione della sostenibilità è essenziale. Anche perché l’intervento umano – ricorda il Rapporto – negli ultimi cinquant’anni ha trasformato significativamente il 75% della superficie delle terre emerse. Il 33% dei suoli mondiali è degradato; in tutta Europa in media ogni anno un’area di 348 chilometri quadrati (maggiore della superficie di Malta) viene impermeabilizzata e cementificata. La bioeconomia è quindi un tassello fondamentale nella salvaguardia delle risorse naturali. Ma – avverte il Rapporto Cen – solo a condizione che sia rigenerativa, cioè basata su risorse biologiche rinnovabili e utilizzate difendendo la resilienza degli ecosistemi e non compromettendo il capitale naturale con prelievi e modalità di impiego che ne intacchino gli stock.
Da questo punto di vista è essenziale la tutela del suolo, elemento base della bioeconomia. Il suolo contiene oltre 2 mila miliardi di tonnellate di carbonio organico: è il secondo sink di assorbimento dei gas serra dopo gli oceani. Ma il continuo degrado del terreno e della vegetazione rappresenta oggi a livello globale un’importante sorgente netta di emissioni di gas serra. Secondo l’Ipcc in media nel decennio 2007-2016 la attività connesse ad agricoltura, silvicoltura e altri usi del suolo sono state responsabili ogni anno dell’emissione netta di circa 12 miliardi di tonnellate di CO2, circa un quarto dei gas serra globali. Se a queste si aggiungono quelle generate dal settore dall’industria alimentare e dal trasporto degli alimenti, le emissioni stimate per il settore food salgono al 37% del totale.
Necessari interventi, risorse e indicatori precisi
La difesa del suolo, delle foreste, delle risorse marine è un punto essenziale nello sviluppo di una bioeconomia rigenerativa e dunque sostenibile, spiega il Circular economy network. “Per quanto riguarda la connessione tra bioeconomia ed economia circolare, ad oggi non esiste un quadro definito e condiviso”, sottolinea Morabito. “Se per il monitoraggio dell’economia circolare bisogna ancora lavorare sull’individuazione di nuovi indicatori di prestazione e sullo sviluppo di strumenti armonizzati di raccolta ed elaborazione dati con cui popolarli, per la bioeconomia circolare dobbiamo cominciare dall’inizio, a partire dalla individuazione dei settori da prendere in considerazione. Tutto ciò va fatto subito, per misurare le prestazioni della bioeconomia in termini di circolarità e assicurarne una diretta connessione con l’economia circolare”, conclude Morabito.
“La transizione verso l’economia circolare e la bioeconomia rigenerativa è sempre più urgente e indispensabile anche per la mitigazione della crisi climatica. Oggi esistono importanti strumenti normativi a livello europeo ma vanno incoraggiati. Penso al piano investimenti presentato alla Commissione europea il 14 gennaio scorso: un primo passo che però non è ancora sufficiente”, aggiunge Ronchi. “Per rendere operativo il Green Deal occorre almeno il triplo delle risorse stanziate: bisogna arrivare a 3mila miliardi di euro. Per raggiungere questo obiettivo serve un pacchetto di interventi molto impegnativi: una riforma dei regolamenti alla base del Patto di Stabilità per favorire gli investimenti pubblici; una nuova strategia per la finanza sostenibile in modo da incoraggiare la mobilitazione di capitali privati; una revisione delle regole sugli aiuti di Stato. Indispensabili, infine, la revisione della fiscalità e la riforma degli stessi meccanismi istituzionali dell’Unione Europea”, conclude.