Già dai suoi primissimi segnali la COP29 di Baku in Azerbaijan non sembra essere in grado di disporre di quel consenso politico necessario per sostenere le scelte necessarie a una vera trasformazione sostenibile. Le distanze tra i paesi o meglio ancora i movimenti che sollecitano un impegno urgente e radicale per contrastare i cambiamenti climatici e i paesi o posizioni che ondeggiano tra il negazionismo, lo scetticismo o più semplicemente tendono a sminuire la portata di questa crisi si sono allargate anziché stringersi.
A parte le tante assenze politiche di rilievo, tra cui USA, Cina e Francia, questa Conferenza delle Parti parte con l’obiettivo (veramente minimo) di dimostrare che la cooperazione globale non sta entrando in una fase di stallo, come ha cercato di esprimere il messaggio stesso dell’UNFCCC e dell’ONU.
A Baku, come testimonia chi sta seguendo l’evento, fa freddo ma i dati che gli scienziati del WMO, World Metereological Organization, hanno portato sul tavolo di questa assise, parlano di un 2024 che si conferma come anno più caldo della storia, o meglio, come l’anno con le temperature medie più elevate da quando sono iniziate le misurazioni.
A parlare è anche Copernicus, il programma di osservazione della terra dell’Unione Europea che ha lo scopo di monitorare il pianeta e il suo “stato di salute”. Secondo Copernicus si andrà purtroppo oltre, per la prima volta, al limite di un aumento della temperatura di +1,5 gradi rispetto ai livelli pre-industriali. L’altro dato-record che ha purtroppo aperto la conferenza riguarda l’aumento delle emissioni di CO2 in atmosfera.
Una relazione sempre più stretta tra clima e finanza
Le dimostrazioni di come il cambiamento climatico produca effetti non più classificabili come eccezionali ma come strutturali in termini di eventi metereologici estremi arriva a questo punto non più solo dalla scienza, ma anche dalla cronaca. Le situazioni drammatiche di devastazioni legate alla siccità o al contrario a piogge torrenziali che distruggono interi centri abitati trasformando strade in fiumi si stanno ripetendo con una frequenza che non può più essere archiviata come una situazione straordinaria.
La crescita nella frequenza di questi eventi e nella loro intensità sta mettendo sotto gli occhi di tutti uno scenario sociale ed economico in cui aumentano i rischi, tanto quelli legati direttamente ai cambiamenti climatici quanto quelli che sono generati in modo indiretto da queste trasformazioni. Rischi a cui guarda con estrema attenzione il mondo finanziario che non a caso è uno degli interlocutori primari di questa COP.
Alla ricerca di risorse per la mitigazione e per l’adattamento
Il sostegno finanziario ai paesi in via di sviluppo per attuare, per quanto possibile, forme di mitigazione e per accelerare la diffusione di forme di adattamento su larga e larghissima scala, rappresenta uno dei principali obiettivi attraverso i quali ridurre i rischi per lo sviluppo economico. E si deve forse andare oltre il concetto di finanza sostenibile.
Uno dei punti di partenza è rappresentato dalla discussione attorno al fondo Loss and Damage da 100 miliardi di dollari all’anno che, come previsto dall’Accordo di Parigi, dovrebbe prima di tutto essere rispettato e in secondo luogo, rinnovato e aggiornato in quanto la sua scadenza prevista per il 2025 è ormai prossima.
A COP29 non ci sarà solo da discutere sulle nuove somme che i paesi sviluppati dovranno o potranno donare, ma anche e soprattutto sulle destinazioni di questi investimenti, sulle modalità con cui dovranno essere utilizzati e forse più di tutto sulla necessità di garantire trasparenza sui risultati, ovvero controlli.
Un segnale in questo senso è arrivato, nel giorno dell’apertura, da Simon Stiell, segretario esecutivo dell’UNFCCC, United Nation Framework Convention on Climate Change che organizza la COP stessa e che ha espressamente sottolineato un concetto che ripete da molto tempo ovvero che non si deve più considerare l’impegno finanziario dei paesi ricchi per progetti legati al contrasto ai cambiamenti climatici come una forma di beneficenza, ma come un impegno economico che va a beneficio di tutti. Anche delle imprese dei paesi ricchi che hanno la necessità, come tutti, di una maggiore sicurezza ambientale.
Anche il messaggio del segretario generale delle Nazioni Unite relativo alle resistenze inossidabili a porre fine all’uso dei combustibili fossili è espresso in chiave di prospettiva economica e afferma che lo stesso sviluppo economico va nella direzione opposta.
La green economy non accetta di arretrare
In questo senso si posizionano anche le opinioni degli economisti che valutano le prospettive legate al secondo mandato di Trump, vale a dire del presidente dell’economia che più può incidere sia direttamente sia come “effetto di trascinamento” sulle politiche e sulle scelte per il cambiamento climatico.
Certamente le dichiarazioni del neo presidente non vanno nella direzione di una politica green, come in buona misura è stata quella del presidente Biden (si pensi all’IRA, Inflaction Reduction Act che ha generato investimenti per 370 miliardi di dollari), e ci sono segnali che addirittura vorrebbero l’uscita degli USA dall’Accordo di Parigi come una delle prime misure del presidente. Ci sono però tanti “anticorpi” e tanti interessi, come segnalano appunto diversi economisti, che rappresentano le istanze di tante imprese della green economy che questa trasformazione la stanno portando avanti con brillanti risultati in termini di generazione di ricchezza e di posti di lavoro, due fattori questi che nessun presidente può permettersi di trascurare.
L’attenzione verso un ordine finanziario mondiale in grado di tenere in considerazione gli obiettivi della trasformazione climatica ed eventualmente in grado di aumentare le risorse a disposizione per questi obiettivi deve misurarsi anche con la capacità del mondo industriale e sociale di attuare una trasformazione in grado di (almeno) avvicinarsi agli obiettivi di decarbonizzazione fissati a Parigi. In altre parole, nel rapporto tra il tempo a disposizione e la capacità “fisica” di trasformazione adesso si avvertono soprattutto i limiti e per quanto si decida di accelerare (nel caso evidentemente più favorevole) più di tanto non si può ottenere.
A questo proposito i dati di un report IRENA, agenzia internazionale per le energie rinnovabili, presentati a COP29 spiegano che per arrivare alla quantità di energia necessaria per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione previsti per il 2030 (per non superare di 1,5 gradi il riscaldamento globale rispetto ai livelli pre-industriali) è necessario raddoppiare la capacità di generazione di energie rinnovabili. E qui torna in campo la dimensione finanziaria, ovvero la necessità di finanziarie una accelerazione che chiede un volume di risorse che arriva a oltre 31 mila miliardi di dollari da mettere sul mercato nei prossimi 5 anni. Un problema – oggi – che la politica illuminata dovrebbe essere in grado di trasformare – domani – in una straordinaria opportunità.