L’Italia si posiziona tra i principali produttori mondiali di olio d’oliva sia in termini di qualità che di quantità. L’80% della produzione nazionale si concentra in 24 province situate per lo più nel centro, nel sud e nelle isole. La coltivazione dell’ulivo procede secondo pratiche agricole tradizionali che stridono con gli effetti del cambiamento climatico, mettendo a dura prova la stabilità della resa olivicola.
A identificare i principali fattori di stress climatico stagionale responsabili dei cattivi raccolti delle olive ci ha pensato una ricerca condotta da ENEA, in collaborazione con il CNR e l’Università della California di Berkeley (Stati Uniti). L’obiettivo è quello di fornire agli agricoltori un sistema di previsione che permetta di conoscere in anticipo l’entità del raccolto delle olive, facilitando così la pianificazione delle strategie agronomiche a cui ricorrere per una produzione elevata.
Il climate change influisce negativamente sui raccolti di olive
I risultati dell’indagine, basata su dati relativi a 66 province italiane nel periodo 2006-2020, sono stati pubblicati sulla rivista Journal Agronomy and Crop Science (che puoi consultare direttamente QUI).
Le analisi, come illustra Luigi Ponti, ricercatore del Laboratorio ENEA di Sostenibilità, qualità e sicurezza delle produzioni agroalimentari e coautore dello studio, rivelano che dal 2014 si sono verificati più frequentemente raccolti eccezionalmente scarsi in concomitanza con inverni particolarmente miti che accorciano il periodo di riposo stagionale della pianta, alterando il suo ciclo vitale e di conseguenza la fioritura e l’impollinazione.
Oltre alla siccità estiva, la causa principe del calo dei raccolti è da attribuirsi a estati umide e fresche che favoriscono la proliferazione delle femmine della mosca dell’olivo. Allo stesso tempo, temperature invernali più miti fanno diminuire la mortalità delle pupe di questo parassita con conseguente aumento del rischio di epidemie per la stagione successiva.
La tecnologia a supporto della produzione agroalimentare
Ponti osserva inoltre che se i cambiamenti nelle caratteristiche del suolo possono alterare la stabilità della resa, si tratta di un processo lento. Al contrario, i fattori di stress climatico stagionale possono avere un impatto rapido e significativo sul raccolto e sui costi da sostenere per il controllo dei parassiti. Di conseguenza, risulta cruciale sviluppare metodologie innovative che consentano al settore agricolo di raggiungere una produzione ricca e stabile.
Grazie all’utilizzo di dati ad alta risoluzione sull’uso del suolo (fino a 300 metri) e 23 variabili climatiche (ad esempio, le precipitazioni, la siccità e la temperatura media massima registrata nei periodi di gennaio-febbraio, luglio-agosto e settembre-ottobre), gli studiosi sono riusciti a sviluppare un indice predittivo tre volte più accurato delle singole variabili.
La ricerca è stata sostenuta da due progetti di rilevanza nazionale e internazionale guidati da ENEA, Tebaka (Finanziato dal Ministero dell’Istruzione in ambito “PON Ricerca e Innovazione 2014-2020) e MED-GOLD (Finanziato dal programma di ricerca e innovazione Horizon 2020 dell’Unione Europea), che mirano a supportare i sistemi agroalimentari olivo, vite e grano, parte del patrimonio mondiale UNESCO della dieta mediterranea.