Made in Italy: grande è bello … o no?

Pubblicato il 26 Giu 2019

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Filippo Renga, Condirettore dell’Osservatorio Smart Agrifood

Si sente spesso dire che uno dei problemi dell’Italia sia la presenza di troppe piccole e medie imprese. In particolar modo in settori fondanti del Made in Italy, come Turismo e AgriFood. Si tratta di una situazione sicuramente vera: ad esempio, nell’ambito agroalimentare abbiamo una dimensione media delle aziende agricole e alimentari italiane molto più ridotta di quasi tutti i Paesi occidentali. E questo riguarda anche il mondo dell’offerta tecnologica ad esse rivolta, con un’atomizzazione delle soluzioni digitali “innovative” offerte sul mercato (sono oltre 300 le soluzioni di Agricoltura 4.0 offerte da oltre 100 imprese). Nel Turismo, invece, abbiamo oltre 30.000 strutture alberghiere non affiliate a grandi catene, oltre 7.000 agenzie di viaggi (in larga parte legate a network di piccole dimensioni), moltissimi tour operator di piccole dimensioni e, soprattutto, una promozione turistica che è estremamente frammentata a livello locale, e che forse necessiterebbe di un coordinamento di livello nazionale.

Ma questo quadro così frammentato ha risvolti solo negativi? 

Da un lato, infatti, la presenza di alcuni “campioni” di grandi dimensioni aiuta da tanti punti di vista, soprattutto in settori dove le economie di scala – ad esempio di produzione o distribuzione, di marketing, di ricerca e sviluppo – hanno un ruolo particolarmente rilevante. Se ci focalizziamo ad esempio sulla promozione turistica, certamente un coordinamento delle specializzazioni e della differenziazione di ciascun territorio potrebbe portare a un ampliamento della segmentazione turistica e ridurre eventuali sprechi da sovrapposizioni (ad esempio nella focalizzazione dei musei).

Dall’altro lato, però, abbiamo riscontrato che molteplicità di imprese significa anche maggiore varietà dei prodotti, che aiuta certamente a segmentare la value proposition e perciò la capacità di cogliere il valore da segmenti del mercato alto spendenti, che a livello mondiale hanno un peso notevole. Se guardiamo all’agroalimentare, ad esempio, la “qualità” è un elemento guida per la spesa dei consumatori, soprattutto di coloro che sono meno sensibili al prezzo; ma il concetto stesso di qualità alimentare è certamente poco univoco. La qualità si sviluppa su varie dimensioni e sottodimensioni che abbiamo mappato nell’Eptagono della Qualità, e tutte fanno riferimento al concetto di “varietà”. La ricerca di queste svariate dimensioni (sono decine) da parte del consumatore lo portano a privilegiare un’offerta ampia, capace di evolvere spesso (negli ingredienti, nella presentazione, nelle garanzie, nell’origine, nella storia raccontata ecc.). Ci sono aziende di medie dimensioni che hanno colto molto bene questi elementi e possono servire mercati molto grandi con posizioni da leader, anche in ambiti alimentari non italiani e solitamente presidiati da multinazionali internazionali, sfruttando bene il marchio del Made in Italy.

Allo stesso modo, ci sono alcune destinazioni turistiche che, pur potendo definirsi piccole, si sono concentrate su segmenti specifici di turismo, che attraggono turisti estremamente focalizzati. Tali realtà stanno ottenendo risultati interessanti, proponendo a target ben specifici prodotti e viaggi molto segmentanti: abbiamo esempi positivi sulla liuteria (a Cremona), sulla produzione di vino (la Valpolicella, il Chianti), su eventi legati al jazz (Umbria, Siena) o alle performing arts (Ravello). Inoltre, l’Italia ha un limite fisico su alcuni “blockbuster” come Roma, Firenze e Venezia. Ci domandiamo perciò se la segmentazione aiuta anche a distribuire in modo intelligente la spesa su mete minori. Inoltre, possiamo considerare la liuteria di Stradivari una meta minore? Forse dovremmo far evolvere il concetto di “destinazione minore” considerando il valore aggiunto che si raccoglie per turista e non basarlo sui numeri degli arrivi complessivi?
Riflessioni simili potrebbero essere fatte sull’industria dell’abbigliamento o dei mobili, che richiedono una forte segmentazione del consumatore.

Le nostre piccole e medie imprese (o destinazioni) sono allora capaci di creare un’offerta più varia, che sia in grado di allargare la segmentazione e perciò aumentare il valore aggiunto creato (anche qui la letteratura sulla segmentazione di proposizione è ampia, ed abbastanza concorde)?

Il dubbio è forte. Nel passato, questo problema l’abbiamo sentito citare più volte anche nella Grande Distribuzione.  Eppure aziende come Esselunga, Conad (che ha appena acquisito i negozi Auchan in Italia), Coop, Iper Montebello sono comunque ancora sane, con un ruolo imprenditoriale e di mercato rilevante in Italia. E non mancano attori emergenti di minori dimensioni (come Rossetto o Naturasì) che sono riusciti a crearsi un ruolo chiaro nel mercato. Altri settori spesso citati in passato per lo stesso motivo sono stati la farmaceutica e la meccanica… varrebbe dunque la pena approfondire.

Come Osservatori Digital Innovation abbiamo già definito di approfondire ulteriormente questi aspetti, perciò non diamo ricette (non le abbiamo!); ma permane il dubbio che una politica industriale che in alcuni settori si rivolge solo alle grandi dimensioni possa rischiare di avere effetti controproducenti. In ogni caso siamo certi di una cosa: è l’innovazione che consente sostenibilità nel lungo periodo, da tutti i punti di vista e per tutte le dimensioni.

Articolo a cura di Filippo Renga, Chiara Corbo, Eleonora Lorenzini, Maria Pavesi (Politecnico di Milano) e Andrea Bacchetti (Università di Brescia) – Osservatori Smart AgriFood, Innovazione Digitale nel Turismo, Innovazione Digitale nei Beni e Attività Culturali

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