Sostenibilità come leva competitiva e valore di business, per prevalere sul mercato e riqualificarsi in ottica ESG. Ma non solo. In un mondo in profonda trasformazione quale quello presente, le imprese devono saper trasferire il loro patrimonio di conquiste ambientali anche su larga scala. Alle altre aziende, ad esempio. Ma anche ai cittadini, alle città, ai territori, agli ecosistemi. Sino al mondo intero.
La sfida più difficile che il mondo economico si trova ad affrontare sta in buona parte qui: nella capacità di rendere la sostenibilità una ricchezza comune e sempre più diffusa. Un quadro apparentemente visionario e sognatore, ma che in realtà nasconde già esperienze concrete, pionieri all’avanguardia, sperimentatori che si sono messi in strada verso gli obiettivi di sostenibilità delle Nazioni Unite o i target messi a punto con gli Accordi di Parigi, senza però scordare il mondo in cui operano.
Un piccolo spaccato di questa rivoluzionaria porzione di realtà è stato il protagonista, stamane, dell’incontro organizzato da VMWare, società che affianca le imprese in processi di Digital transformation, per fare il punto sulle relazioni fra business responsabile e futuro resiliente. Due facce di una stessa medaglia, sulle quali VMWare, per voce del Country manager Italia Raffaele Gigantino, si è confrontata con partner e protagonisti del cambiamento sotto la guida della giornalista di SkyTg24 Lavinia Spingardi.
Una responsabilità “poliedrica”
A smuovere le acque sono stati gli spunti del padrone di casa Gigantino, cui è spettato il compito di ricordare il decennale impegno in ambito Environment di VMWare, oggi concentrata su 30 obiettivi misurabili da raggiungere entro il 2030 e tre linee d’azione concrete: trust, equity e sustainability. Il risultato è una corporate responsibility poliedrica, fatta di approcci all’innovazione fondati sull’etica ma anche improntati alla sicurezza degli stakeholder; fatta di desideri di equità e inclusività nei luoghi di lavoro; fatta anche di collaborazioni no-profit e partnership sociali. Ma fatta soprattutto di sostenibilità, di innovazione disegnata a misura di un mondo più resiliente, “decarbonizzando l’infrastruttura digitale attraverso l’ecosistema dei clienti, la catena del valore e le operations”.
E se, parlando in termini pratici, per il Gruppo VMWare la sfida 2030 si gioca su propositi che vanno dall’uso di energia al 100% da fonti rinnovabili alla riduzione di emissioni del 50% rispetto al 2018, sino al coinvolgimento del 75% dei fornitori per ridurre le loro emissioni fissando obiettivi scientifici entro il 2024, o al trasferimento di digital skill a più di 15 milioni di persone attraverso l’Academy proprietaria, per VMWare Italia il fischio d’inizio della grande partita risuona al Parco Nord di Milano, dove l’azienda ha messo a dimora 500 alberi fra querce, roveri, carpini, aceri e ciliegi.
Un piccolo tassello del progetto ForestaMI, che nelle intenzioni del Comune dovrebbe portare a piantare sul territorio meneghino 3 milioni di alberi entro il 2030, ma che per l’azienda tech ha un valore decisamente più ampio, in perfetta linea con quell’impegno a “guardare oltre il business” su cui dovrà fondarsi la responsabilità aziendale del domani: 500 alberi in più sulla Terra, per dare un contributo concreto alla riduzione di anidride carbonica nell’atmosfera.
Di Franco (Atos): “Lavorare sui processi dei clienti è una grande responsabilità”
Per Giuseppe Di Franco, Ceo di Atos Italia, l’impegno sul fronte ambientale è ormai un dovere imprescindibile, come il curriculum della società dimostra su ogni declinazione dell’ambito Environment. “E non sono del tutto convinto che la tecnologia a priori non sia buona né cattiva, ma lo diventi solo in base all’uso che se ne fa – ha chiarito -: perché il digitale è un pilastro portante del processo di decarbonizzazione. E per questo va sfruttato in tutte le sue potenzialità”.
Eppure, ha fatto presente al pubblico collegato online, non basta avere buone intenzioni. “Quel che un’azienda può fare da sola contro il climate change è importante, ma quel che davvero conta è ciò che può fare anche per gli altri. Noi, ad esempio, abbiamo l’opportunità di lavorare sui processi dei nostri clienti, trasformando il modo in cui le aziende operano. Questa è una grande, immensa leva di cambiamento che ci investe di responsabilità. E come noi, tante altre aziende del mondo IT”.
Ceriani (Alperia): “Concretezza per guidare la transizione energetica”
Sulla stessa lunghezza d’onda anche Luca Ceriani, Chief digital officer del gruppo Alperia, partner di VMWare e principale provider di servizi energetici green dell’Alto Adige, premiato come miglior “Green brand” mondiale al Charge energy branding award 2020. “Nel piano di sostenibilità del nostro gruppo c’è anche un’ambizione importante – ha puntualizzato Ceriani -: essere agenti primari del cambiamento di transizione energetica. Come? Attraverso varie azioni: un cambiamento di paradigma, mettendo al centro il cliente e non più l’azienda; l’attenzione al territorio su cui operiamo, che ora abbiamo la capacità di interconnettere in modo veloce; un uso ragionevole delle risorse; investimenti in digitalizzazione e innovazione”.
Non è un caso che, forte di approcci tanto sostanziosi, il gruppo Alperia oggi si stia distinguendo per le visioni innovative con cui guarda al domani. Tra tutte, lo sviluppo di soluzioni tecnologiche inedite per il settore energetico e la creazione di un modello di smart region all’avanguardia, ma anche la diffusione di un modello di ecosistema sostenibile e innovativo in tutto l’Alto Adige.
L’urbanista Freyrie: “Cambierà radicalmente il modo di progettare”
Ma sostenibilità vuol dire solo azione? Per l’architetto e urbanista Leopoldo Freyrie, ultima voce in campo nel digital event, no: la sostenibilità è anche e soprattutto una questione di contesto. Di ambiente che agevola i comportamenti.
Ecco perché il concetto di “Casa in 15 minuti”, il modello urbanistico di vicinato emerso con l’emergenza pandemica, ha un senso concreto. E, si spera, un futuro. “Ma non è solo un modo per accrescere la comodità dei cittadini, ai quali tutti i servizi si avvicinano evitando spostamenti e assembramenti – ha spiegato Freyrie -. E’ un nuovo modo di vedere la città: qualcosa di più profondo e duraturo, che ci porta a immaginare una città fatta di “pluricittà”, strutture a grande grado di autonomia in cui ogni cosa è presente, dai servizi alla formazione, sino al verde, in connessione non solo con la città-madre, ma con tutto il mondo”. Eccola dunque che ritorna, quella spinta a guardare oltre. Alla società e al pianeta nel suo insieme. “Per noi architetti – ha concluso Freyrie – è una grande sfida, perché dovremo cambiare totalmente il modo di progettare le città, dimenticando quanto imparato nel ‘900. Non si parlerà più di residenze o uffici, ma di microcittà. E il riuso sostenibile dell’esistente, in questa logica, sarà prioritario”.
Dalle imprese agli erogatori di servizi, sino ai progettisti, il challenge è dunque aperto. A ognuno la sua fetta di sfida. Ma a un patto: non guardare solo al proprio orto. E immaginare un futuro responsabile e resiliente, ma per tutti.