Le tecnologie digitali sono una leva potente per la sostenibilità e questo è un punto fondamentale difficile da contestare. Per analizzare le prospettive legate a questo scenario prendiamo un caso noto a tutti: i quotidiani. La tiratura del Corriere della Sera tra il 2000 e il 2019 è passata da 888.695 copie giornaliere a 295.918 (vedi tabelle 1 e 2) come conseguenza dello sviluppo dell’offerta online per la fruizione del quotidiano. Per ottenere 1 kg di carta da “carta riciclata” servono 1,8 litri di acqua e 2,7 kWh di energia elettrica: la riduzione di impatto ambientale è evidente, anche considerando l’aumento del consumo di energia elettrica per la fruizione online.
L’impatto ESG in termini di impatto nella trasformazione digitale di un grande quotidiano
Non è però tutto qui l’impatto sui temi ESG della trasformazione digitale del Corrierone. Diffondere 888.695 copie tutti i giorni in tutti i comuni d’Italia è uno sforzo enorme che comporta furgoni di ogni tipo che girano per le strade, con tabelle di marcia strettissime, perché il quotidiano è un bene che appassisce in fretta nel corso della giornata. Ulteriore consumo di carburante e inquinamento, certo, ma anche, inevitabilmente, incidenti.
Non solo. Prima che la stampa fisica del giornale potesse essere distribuita territorialmente, le copie del Corriere venivano trasportate nottetempo in macchina da Milano, ad esempio, a Roma per essere in edicola al mattino: se vivevi in una città meno importante di Roma, o in un paese remoto, la copia del Corriere arrivava solo nel pomeriggio o il giorno dopo. Oggi accendi il tablet e leggi il giornale dovunque tu sia, appena sveglio. Quindi non solo miglioramenti alla voce E (Environment) dell’acronimo ESG, per il minore inquinamento e per il minor consumo di acqua, ma anche alla voce S (Social) per la riduzione degli incidenti sul lavoro e delle differenze fra città e campagna e per il miglioramento dell’accesso alle informazioni. Si potrebbero fare altri esempi ma forse è inutile: è troppo evidente che la sostenibilità ha bisogno del digitale.
Come calcolare l’impatto ambientale della trasformazione digitale
Se però giriamo la frase, cosa succede? La trasformazione digitale è sostenibile?
La prima cosa a cui si pensa, in proposito, è il consumo di energia per i tanti device che ci accompagnano nella giornata, con il loro indotto di prese e cavi disseminati per case e uffici. Uno studio realizzato da EWZ (società per l’energia elettrica della città di Zurigo) ha evidenziato che il consumo di elettricità nelle case private a Zurigo è aumentato circa del 6 per cento nel 2020 rispetto al 2019 per effetto del Covid e del conseguente cambiamento negli stili di vita: smartworking, ma anche Netflix. È specularmente diminuito però nelle imprese del 4%. L’EWZ ha, inoltre, calcolato che una videoconferenza di un’ora a cui partecipano quattro persone porta a un consumo di elettricità di circa 0,6 kWh.
Bisognerebbe, però, considerare anche l’altro lato della medaglia: la riduzione di traffico con conseguenze ambientali e sociali analoghe a quelle già viste per i quotidiani e probabilmente altri fattori. Bilancio difficile da fare, dunque, però il consumo di energia elettrica è certamente un elemento da considerare, insieme ad altri connessi alla digitalizzazione, relativamente al suo impatto ESG.
L’evoluzione della tecnologia e l’evoluzione dei comportamenti
Il tema più stimolante, però è un altro: la sostenibilità della trasformazione digitale in relazione alle implicazioni etiche che essa comporta. L’evoluzione della tecnologia, negli ultimi anni, ha trasformato in profondità la vita delle persone, creando una vera e propria dipendenza dalla disponibilità di servizi e di strumenti digitali per la vita quotidiana – la vita “fisica” non solo quella digitale – di una larga parte dell’umanità con implicazioni diverse per una lunga serie di temi ESG rilevanti: diversity & inclusion, discriminazione, safety, security, tracciamento e controllo fino alle implicazioni ambientali di cui sopra.
Ad esempio, il ricorso alla tecnologia (Big data, AI) è sempre più spesso finalizzato a consentire e facilitare il trasferimento di decisioni dagli uomini al software, secondo logiche che non sono sempre perfettamente descrivibili e neppure così facilmente riconducibili a criteri predefiniti e spiegabili a chi è soggetto a quelle decisioni,
Il risultato può essere che la stessa logica del consenso al trattamento dei propri dati personali, così spesso alla base della legittimità dei trattamenti effettuati sui nostri dati personali, ne può risultare inficiata. Non solo: i dati su cui la decisione si basa sono raccolti da fonti sempre più numerose e diversificate, spesso fuori dal controllo delle persone interessate dalla decisione.
A questo si devono sommare altri elementi: può accadere che chi progetta e crea software trasferisca nel proprio lavoro pregiudizi, incomprensioni, sottovalutazioni ed errori. Il software che classifica, seleziona e profila inevitabilmente discrimina o influenza le nostre scelte o, addirittura, sceglie per nostro conto sulla base di criteri stabiliti altrove e in un altro momento. Da tutto ciò deriva, fra l’altro, la difficoltà di determinare chi debba rispondere delle conseguenze della decisione e dell’azione conseguente, sia in caso di comportamento fisiologico come in caso di errore o di dolo. Diventiamo così, spesso a nostra insaputa, oggetto di decisioni prese da regole e algoritmi definiti da altri e di cui possiamo non supporre nemmeno l’esistenza, prima ancora di non conoscerne le logiche di funzionamento.
Il grande tema della responsabilità dei dati e del loro ruolo sulle nostre scelte
Per stare su temi leggeri: qualche anno fa ci fu una protesta degli operatori turistici romagnoli contro le app di previsioni meteo che avevano previsto pioggia in un weekend che invece si era poi rivelato soleggiato, scoraggiando i turisti e riducendo i fatturati. Anche solo il sospetto che le previsioni meteo rispondano ad una logica di audience anziché di informazione scientifica introduce, però, un tema diverso, e un potenziale conflitto di interessi. Oggi gli algoritmi meteo sono molto più precisi e i bagni della Romagna hanno dovuto farsene una ragione, ma moltissimi temi con ben più grande rilevanza etica e politica possono rientrare in questo schema.
Non serve dilungarsi: è un fatto incontrovertibile che il mondo del digitale ha un peso rilevante nelle nostre scelte, sempre più condizionate da informazioni che possono essere sbagliate, per dolo o per errore, e da elaborazioni che usano logiche al di fuori del nostro controllo o addirittura inconoscibili. Possiamo far finta di nulla e procedere tranquilli verso le magnifiche sorti e progressive? E, se no, chi si deve occupare di affrontare questi temi?
E’ difficile non convenire che l’intero impianto della società digitale poggia, a torto o a ragione, sulla fiducia: “don’t be evil (non fare del male)” è il principio etico che i fondatori di Google hanno posto alla base della legittimità ad operare della loro creatura e dell’enorme potere che ha acquisito. Fino a quando sarà sostenibile un processo di trasformazione digitale che non si curi di erodere il proprio patrimonio di fiducia da parte dei cittadini-consumatori, per occupare nuovi spazi di profitto?
Oppure, invertendo la prospettiva: fino a quando il rischio connesso agli investimenti nella trasformazione digitale sarà accettabile, se quello stesso rapporto di fiducia è messo a rischio?
Etica e trasformazione digitale
Ricordando la definizione di sviluppo sostenibile del rapporto Brundtland dell’87 (“far sì che esso soddisfi i bisogni dell’attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere alle loro“) è dunque evidente che la questione etica è un tema di sostenibilità della trasformazione digitale e del sistema economico che sta generando e genererà.
Considerato il valore degli investimenti necessari per questa trasformazione, dunque, è indubbiamente interesse di tutti inserire, strutturalmente, una fase di valutazione degli impatti etici della tecnologia, che si progetta di utilizzare, che consenta di valutarli anticipatamente, inserendo, nelle soluzioni e/o nei servizi che si porteranno sul mercato, adeguate misure di contrasto ai rischi connessi.
Si tratta di un tema non più eludibile: non per niente la UE ha in corso di approvazione un regolamento sullo sviluppo di strumenti basati sull’intelligenza artificiale, che cerca di affrontare il tema con un approccio basato sul rischio, modulando i vincoli imposti agli sviluppatori in funzione dell’ambito applicativo e dei rischi ad esso connessi, arrivando a vietare lo sviluppo di soluzioni in ambiti considerati ad altissimo rischio. Non è obiettivo di questo articolo entrare nel merito della normativa e della tecnologia. L’obiettivo è, invece, quello di inquadrare il rapporto fra tecnologia e sostenibilità.
Considerare, in sede di progettazione, gli aspetti etici connessi all’adozione di strumenti digitali tecnologicamente evoluti dovrà diventare un obbligo per tutte le aziende che ne faranno un elemento distintivo o che, comunque, baseranno su tecnologie digitali avanzate i servizi che offrono alla clientela o che li aiutano a governare la propria organizzazione.
La riflessione non dovrebbe riguardare solo la deriva patologica dello strumento, cioè quando o se lo strumento sbaglia o se un hacker si mette di mezzo, ma anche la fisiologia dello strumento, cioè la finalità che il progettista ha inteso realizzare, il comportamento che ha inteso perseguire, ritenendolo corretto. Peraltro, la distinzione stessa fra cosa sia un comportamento sbagliato, cioè cosa sia un errore (3+4=8) e che cosa un’impostazione prevista (cioè corretta) che produce un risultato imprevisto e inaccettabile non è semplice da fare.
Il fatto che gli strumenti basati su Intelligenza artificiale, sui big data e sulle tecnologie più innovative siano efficienti e abbiano percentuali di errore basse complica ulteriormente la situazione, perché aumenta la confidenza nello strumento e quindi anche la propensione a delegare, di fatto, la scelta. Così, se l’errore risiede nell’incapacità di riconoscere i tratti somatici di una determinata etnia, l’errore sarà tanto più raro quanto minori sono i casi di persone appartenenti a quella etnia. Nessuno controllerà più il risultato dell’analisi dello strumento, perché in tutti gli altri casi la decisione è normalmente giusta. Essere ingiustamente discriminati diventa così una eventualità remota per quasi tutti gli interessati ma, invece, probabile per quanti appartengono a quella specifica etnia.
Queste questioni non riguardano solo Facebook, Google, Amazon, Apple, Microsoft e il capitalismo con caratteristiche cinesi. Di questi problemi devono iniziare ad occuparsi le banche, le assicurazioni, gli enti pubblici, le forze dell’ordine: tutti quelli che sperano o devono sperare di trarre un grande beneficio dall’uso sistematico di strumenti di questo tipo. E lo devono fare all’interno delle riflessioni che confluiscono nel loro bilancio di sostenibilità e nella Dichiarazione Non Finanziaria (DNF, d.lgs. 254/2016) perché di questo si tratta e perché questa collocazione meglio garantisce un’analisi non limitata alla sfera degli esperti di tecnologia e una valutazione sugli impatti anche finanziari nel breve o medio periodo.
I quattro punti chiave della relazione tra digitale e sostenibilità
Riassumendo il ragionamento:
- il digitale è essenziale per riuscire a raggiungere gli obiettivi ESG necessari per garantire la sostenibilità del nostro sistema economico, politico e sociale.
- Il digitale stesso, però, pone un tema sostanziale di sostenibilità che deve essere affrontato all’interno della riflessione aziendale come lo è nelle iniziative delle Istituzioni.
- l’etica digitale è un tema di sostenibilità proprio perché contribuisce a far sì che l’intero processo di trasformazione digitale, da cui sono attesi tanti benefici ESG, consolidi e non eroda le proprie fondamenta fatte di fiducia e di rispetto dei diritti individuali e sociali, di non discriminazione e di inclusione ed è interesse di tutti che questa fiducia non si incrini. Cioè sia sostenibile.
- Far diventare la riflessione sull’etica digitale una componente essenziale del processo di trasformazione perché
- è un modo per garantire che i benefici della tecnologia possano essere fruiti anche dalle generazioni future e non siano invece compromessi dalla sottovalutazione dei rischi etici connessi
- È un modo di ridurre il rischio che gli ingenti investimenti necessari per la trasformazione digitale siano vani.