La sostenibilità sociale sorpassa quella ambientale tra le priorità prese in considerazione dagli italiani nei confronti delle aziende: l’impronta green passa in seconda posizione con il 66,6% di preferenze, mentre in pole position su cosa gli italiani si aspettano da una “Good Company” c’è l’attenzione ai diritti dei lavoratori e delle comunità.
A scattare la fotografia è una ricerca promossa da Gruppo Tesya, società internazionale specializzata nella fornitura di servizi e soluzioni integrate B2B, in collaborazione con AstraRicerche.
La survey ha coinvolto un campione di 4.031 persone in Portogallo, Spagna, Italia, Slovenia e Croazia, con l’obiettivo di approfondire la percezione della Corporate Social Responsibility (CSR) e intercettare il sentiment intorno alle good company.
I risultati della ricerca
Dallo studio emerge che il 70% degli italiani ritiene che una good company, per dichiararsi tale, debba prestare massima attenzione al rispetto dei diritti dei propri collaboratori, attraverso una retribuzione adeguata, la creazione di un ambiente che promuova il work life balance e valori come equità, diversità e inclusione, dando pari dignità ai propri dipendenti (67,2%).
A seguire compare la sostenibilità ambientale, da raggiungere attraverso l’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse, la riduzione degli sprechi e la realizzazione di progetti di sviluppo ecocompatibili.
I risultati registrati in Italia sono simili a quelli del resto dei Paesi presi in considerazione dalla survey: la priorità, infatti, è rivolta ai diritti dei lavoratori anche in Portogallo (72,8%), in Spagna (67,4%), in Slovenia (63,3%) e in Croazia (71%).
In generale, inoltre, il 57,8% del campione associa al concetto di good company l’impresa capace di avere prospettive economiche positive di lungo termine, rendendo possibile la continuazione dell’attività aziendale per molto tempo (Italia 57,1%; Portogallo 59,6%; Spagna 58,3%; Slovenia 48%; Croazia 62,2%).
Cresce la sensibilità nei giovani
“Oggi le persone si aspettano che i valori che guidano un’azienda rispecchino i propri: desiderano lavorare per quelle organizzazioni capaci di generare nel medio e lungo periodo ricchezza e impatti positivi per le comunità, di cui andare orgogliose, e di essere chiamate in causa nei processi e nelle iniziative aziendali – afferma Lino Tedeschi, CEO e presidente del Gruppo Tesya – Il 67% degli intervistati è attratto dalle good company: un dato che stimola le imprese ad accelerare sull’innovazione e a rinsaldare il rapporto con i propri dipendenti, favorendo livelli crescenti di benessere organizzativo, puntando sulla formazione continua e sull’aggiornamento costante delle competenze, essenziali per affrontare con efficacia le sfide del futuro; anche perché tutti questi temi stanno diventando sempre più rilevanti proprio per la generazione Z che costituirà un terzo della forza lavoro entro il 2030. Investire nella capacità di attrarre e trattenere i talenti è determinante per generare un impatto positivo sulla competitività delle imprese e dei sistemi economici”.
Le good company sono più attrattive
Secondo la ricerca, lo status di good company rende le imprese più attrattive per i potenziali dipendenti e per i consumatori, rafforzando la fiducia verso l’organizzazione. Il 67% del campione prenderebbe in considerazione la possibilità di candidarsi per un impiego in una good company, mentre il 66% si dice condizionato positivamente nelle proprie scelte di consumo e di acquisto di prodotti e servizi.
La difficoltà di essere good company
Ma scegliere la sostenibilità non ha soltanto conseguenze positive per le aziende: il 45% del campione, infatti, dimostra diffidenza e sostiene che quelle sulla sostenibilità rischiano di essere dichiarazioni di impegno che non sempre trovano corrispondenza nelle azioni reali.
A questo si aggiunge la percezione delle difficoltà in cui si imbattono le imprese che scelgono la via della sostenibilità: il 45% del campione ritiene che una good company potrebbe avere difficoltà a trovare altre realtà con cui collaborare che si allineano ai suoi valori, e una percentuale media simile pensa che per le good company sia complesso operare in alcuni mercati, contesti e territori. Infine, il 38% crede che una good company potrebbe riscontrare difficoltà ad essere competitiva e avere accesso sul mercato.
La sfida della credibilità
Per essere credibili, secondo i risultati dello studio, le organizzazioni dovrebbero concentrarsi in pochi ambiti, poiché non sarebbero credibili se si mostrassero avanzate in tutti.
“L’idea del ruolo delle aziende nella società occidentale sta cambiando in modo sempre più veloce: la cittadinanza, di fronte a difficoltà sociali, economiche, ambientali e di altro tipo, auspica e si aspetta che le aziende si attivino per avere comportamenti migliori non solo in merito alla propria area di business (e quindi verso i clienti o i consumatori) ma anche verso tutti gli stakeholders, e di certo non soltanto come modo per migliorare l’immagine aziendale, ma con azioni concrete e caratterizzate da una visione di lungo periodo – sottolinea Cosimo Finzi, direttore di AstraRicerche – il dato più interessante che emerge in tutti i Paesi dove abbiamo svolto lo studio è il ‘sorpasso’ della dimensione sociale su quella ambientale: l’impatto sui lavoratori, non solo quelli dell’azienda ma quelli della filiera intera, è sempre più oggetto di attenzione da parte del cittadino. La sfida ora non è solo quella di essere una good company per davvero, ma anche di saperlo comunicare in modo efficace e convincente, visto che la diffidenza è decisamente elevata”.