C’è voluto un giorno in più rispetto a quanto previsto dall’agenda ufficiale per arrivare alla firma del documento finale di COP26 e quindi alla nascita del Glasgow Climate Pact, sottoscritto dai 197 paesi che hanno partecipato al Summit. L’accordo riconosce la necessità di agire con urgenza per limitare i cambiamenti climatici, pur con dei rallentamenti e alcune importanti criticità.
Tra le principali c’è il fatto che l’ “eliminazione graduale” del carbone si sia trasformata nel documento conclusivo in una “riduzione graduale”, ammorbidendo quindi i toni rispetto a quanto era stato inizialmente previsto, e pone un ostacolo alla effettiva verifica dei risultati e ai controlli. Frizioni anche sul fatto che nel documento finale non ci fosse un riferimento preciso alla destinazione di 100 miliardi di euro per i paesi in via di sviluppo a sostegno della transizione energetica, né alle richieste di fonti avanzate da più parti per fare fronte ai danni già causati dal climate change.
Il consenso più ampio si è registrato sull’obiettivo di mettere in campo misure per limitare il riscaldamento globale sotto 1,5 gradi dai livelli preindustriali: si tratta di un passo in avanti rispetto agli accordi che erano stati raggiunti a Parigi, che prevedevano la limitazione al di sotto dei due gradi. L’intesa prevede anche che le emissioni di CO2 vengano ridotte del 45% entro il 2030, con un obiettivo fissato al 2050 per il Net Zero, con le strategie nazionali rimandate al 2022.
Nel suo comunicato ufficiale diffuso al termine del summit United Nation Climate Change (Uncc) sottolinea come dopo sei anni di negoziati sia stato possibile arrivare a mettere tutti d’accordo sulla realizzazione degli Accordi di Parigi, sottolineando come l’adattamento al climate change, le misure per la mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici sono stati al centro di un dibattito complesso, che ha portato a stabilire un programma di lavoro per identificare in modo chiaro i bisogni collettivi.
L’intesa prevede tra le altre cose un rafforzamento della “Santiago Network”, con il sostegno ai Paesi che devono affrontare e gestire perdite e danni, e l’istituzione di due registri per NDCs Nationally Determined Contribution e Adaptation Communications, che dovranno indirizzare dati e informazioni al Global Stocktake dell’UNCC per controllare i risultati di questi interventi nel lungo periodo e che si terrà ogni cinque anni a partire dal 2023.
L’accordo prevede inoltre un invito a rafforzare il sostegno ai paesi in via di sviluppo, raddoppiando gli impegni attuali, con il trasferimento di 100 miliardi di dollari all’anno dai paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo. Per ottenere questi risultati sarà fondamentale l’impegno della finanza mondiale, ad esempio attraverso la Glasgow financial alliance for net zero (GFANZ), attraverso la quale 45 società finanziarie di 45 paesi e con risorse finanziarie complessive dell’ordine di centomila miliardi di dollari hanno in programma di favorire la transizione energetica.
Quanto poi alla mitigazione, l’obiettivo è di arrivare a impegni nazionali in linea con l’accordo di Parigi, attraverso il Paris Rulebook e l’Enhanced Transparency Framework, con una serie di strumenti per rendicontare in modo chiaro e trasparente obiettivi e risultati. Il punto critico rimane in questo contesto quello del controllo, della verifica e della misurabilità degli impegni, senza il quale sarà difficile “mettere a terra” gli obiettivi.
Sul metano hanno firmato un accordo Unione Europea, Usa e altri 100 Paesi, la Global Methane Pledge, che prevede un impegno a ridurre le emissioni globali di metano di almeno il 30 percento rispetto ai livelli del 2020 entro il 2030, con i Paesi sviluppati invitati a raddoppiare il loro sostegno a quelli in via di sviluppo entro il 2025. Quanto alla protezione degli habitat naturali, il 90% delle foreste mondiali è stato “coperto” da un impegno siglato da 130 paesi per porre fine alla deforestazione entro il 2030.