Sono ormai trascorsi tre anni da quando parliamo di Brexit, ovvero dal Referendum con cui il Regno Unito ha votato l’addio dall’Unione Europea. Al momento in cui scriviamo non è ancora chiaro in che modi avverrà questa uscita (Hard Brexit o Soft Brexit?) e, addirittura, esiste una piccola possibilità che la Brexit non avvenga mai, viste le ripetute richieste di un secondo referendum da parte di non pochi politici britannici. Quel che è certo è che tutte le imprese che operano nel Vecchio Continente e in particolare quelle che hanno relazioni di import/export con la Gran Bretagna, sono tenute a guardare alla Brexit in un’ottica di risk management, valutando cioè i rischi ad essa connessi per la propria attività di business.
In particolare una Brexit senza accordo (la famosa No Deal), comporterebbe per tutte le organizzazioni la necessità di rispondere immediatamente a molti cambiamenti, alcuni dei quali altamente significativi per le loro abitudini di business. Il più concreto dei quali è rappresentato dal ritorno immediato dei controlli alle frontiere tra la UE e il Regno Unito, controlli che non esistono più da decenni, ovvero dall’introduzione del mercato unico europeo (nato il primo gennaio 1993). Il Regno Unito sarebbe trattato come un paese terzo dall’UE e il commercio bilaterale sarebbe regolato dalle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio. A questo si aggiunge la possibilità che possano essere introdotte delle vere e proprie tariffe doganali per l’importazione dei beni provenienti dalla Ue. Nel lungo termine, poi, le legislazioni nei diversi settori tra un Regno Unito uscito dalla UE e il Resto dell’Europa potrebbero divergere in maniera più o meno, aumentando le complicazioni per i Paesi membri.
A rischiare sono soprattutto tutte quelle imprese multinazionali che hanno scelto il Regno Unito come base logistica o che comunque hanno delle attività sul territorio britannico e sono parte di catene del valore distribuite su base europea e potrebbero dover rivedere alcune scelte organizzative per adattarsi al mutato contesto; inoltre molte imprese multinazionali si appoggiano alla piazza di Londra per la gestione dei servizi finanziari, dunque c’è la possibilità che ci possano essere aumenti del costo del credito per le imprese. A preoccupare, in particolare, è la posizione delle imprese italiane impegnate in attività di export verso il Regno Unito: considerato che al momento la possibilità di una Brexit “no Deal”, cioè senza accordo, appare piuttosto concreta, l’import-export italo-britannico potrebbe sottostare alle regole tariffarie del WTO.
I settori più a rischio
Ne risentiranno le imprese esportatrici italiane (ed europee) che rischiano di vedere ridotti i volumi di beni rivolti al mercato britannico; nel 2017 l’export made in Italy verso il mercato britannico era pari a 23,1 miliardi di euro, secondo il Centro Studi di Confindustria. Un ammontare pari a oltre il 5% dell’export italiano nel mondo, un percentuale insomma importante ma comunque inferiore a quella rilevata per i principali partner europei del nostro Paese. In particolare, potrebbe subire l’impatto negativo della Brexit il comparto delle “Bevande, vini e bevande spiritose”, dal momento che Il Regno Unito attrae circa il 12% dell’export italiano complessivo di questo settore, pari a 1,1 miliardi di dollari correnti nel 201. Non solo: se venissero applicati improvvisamente i regolamenti tariffari tra UE e resto del mondo, le bevande sarebbero tra i beni sottoposti a barriere tariffarie più elevate (nell’ordine del 19%). A rischio c’è poi tutto il nostro comparto dell’“Agrifood”: nel Regno Unito, infatti, sono stati esportati nel 2017 prodotti agro-alimentari per un valore di 2,6 miliardi di dollari correnti e, nei sei anni 2012-2017, il mercato britannico ha rappresentato una quota media annua del 7,8%. In questo caso a pesare, oltre alle barriere tariffarie (con un picco del 35% per i latticini) e al possibile cambiamento del quadro regolamentare, ci sarebbe l’allungamento dei tempi di sdoganamento delle merci, che risulterebbe cruciale in negativo per alcune tipologie di prodotti freschi. Altri settori che potrebbero risentire dell’uscita dal Single Market del Regno Unito sono: “Legno e arredo” (quota media 2012-2017 dell’8,3%), “Autoveicoli” (7,5%) e “Altri mezzi di trasporto” (6,7%). I rischi legati alla Brexit, insomma, non mancano.
Le possibili opportunità per l’Italia
D’altra parte, però, l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea potrebbe portare anche portare opportunità economiche per gli altri Paesi del Vecchio Continente, dal momento che alcuni investitori potrebbero scegliere di privilegiare per le loro operazioni dei Paesi ancora saldamente ancorati a Bruxelles. Detto in altri termini, l’uscita del Regno Unito dall’UE potrebbe mettere in moto la riallocazione, almeno parziale, degli investimenti diretti esteri (IDE). Secondo questo scenario, per i paesi UE ci saranno opportunità di maggiori capitali esteri in entrata. Uno studio effettuato a ridosso del referendum sulla Brexit stimava una diminuzione degli IDE nel Regno Unito del 22% in dieci anni. Ciò equivarrebbe a circa 282 miliardi di euro di capitali esteri che potrebbero affluire nei paesi UE. In particolare il CSC stima che per l’Italia gli investimenti diretti esteri potenziali extra potrebbero generare un aumento del PIL di 5,9 miliardi di euro annui.
Brexit, i rischi per le Pmi
Premesso che le variabili in gioco sulla Brexit sono ancora tantissime, vista anche la confusione politica nel Regno Unito, è possibile comunque mettere in fila le difficoltà concrete a cui saranno sottoposte le imprese in caso di Brexit più o meno drastica. Le Pmi, in particolare, secondo Eurochambres, un’associazione commerciale con sede a Bruxelles che rappresenta oltre 20 milioni di imprese con oltre 120 milioni di dipendenti in Europa, avranno la necessità di effettuare dichiarazioni doganali e adeguarsi alle procedure doganali supplementari e ai controlli nei porti. In caso di Hard Brexit, magari senza accordo, dovrebbero essere messa nel conto la possibilità di interruzioni del trasporto aereo e stradale, in particolare lunghe code ai confini per l’ingresso nei merci. Inoltre, più nel medio periodo, le piccole e medie imprese dovrebbero attrezzarsi per garantire che i prodotti che usano o gestiscono che provengono dal Regno Unito siano certificati da un ente in uno stato membro dell’UE e che, viceversa, i prodotti esportati nel Regno Unito siano correttamente autorizzati dagli enti preposti di Londra. Più in prospettiva, occorre considerare che molte PMI che operano soltanto nel mercato dell’UE non hanno mai dovuto completare prima una procedura doganale. Con l’operatività di Brexit, se vorranno continuare a commerciare con il Regno Unito, dovranno acquisire competenza su questo punto, comprendendo le conseguenze sulle procedure IVA, i diritti di proprietà intellettuale, gli standard, i contratti, le norme sull’occupazione, ecc. Fattori, che è facile da capire, comportano un incremento non gradito dei costi amministrativi e di conformità delle piccole imprese, che potrebbe essere tale per alcune imprese da spingerle a escludere la Gran Bretagna dal proprio raggio di azione.
La mitigazione del rischio
Da quello che abbiamo scritto sinora è chiaro che la Brexit comporta dei rischi estremamente concreti per l’attività delle imprese. Investendo, dunque, l’attività di chi si occupa direttamente della gestione del rischio, vale a dire i risk manager. Già a partire dal referendum 2016 i risk manager delle società britanniche hanno cercato di comprendere come fosse possibile mitigare i rischi insiti nella Brexit. In una prima fase l’approccio è stato multidisciplinare, con il coinvolgimento di diversi settori dell’impresa – dalle HR al legal, e poi la produzione, il settore finanziario, la supply chain e il controllo qualità – per comprendere appieno l’esposizione al rischio di ciascuna azienda. Alcune delle quali, ovviamente erano più esposte di altre a questi rischi, a partire dalle aziende sanitarie, che hanno la necessità di assicurare la continuità dell’assistenza ai malati.
In questi tre anni le imprese accorte hanno perciò attivato una serie di misure di prevenzione, che hanno già comportato costi significativi. Tra queste:
– lo stoccaggio di componenti e pezzi per garantire che la produzione possa protrarsi per diverse settimane in caso di “mancato accordo”, con un aumento del capitale circolante e delle scorte di magazzino;
– per assicurare la continuità operativa, le imprese di sono organizzate per far sì che alcune funzioni come il controllo di qualità e la conformità normativa possano essere eseguite sia nel Regno Unito che nella UE, nel caso in cui il reciproco riconoscimento di norme e standard non si concretizzi;
– per evitare l’interruzione della fornitura, si sono cercate fonti alternative al di fuori del Regno Unito;
– parte della documentazione è stata trasferita in un paese della Ue;
Un rischio che può esser gestito
La conclusione è che le aziende che hanno un sistema di gestione del rischio maturo non devono temere in maniera particolare le conseguenze della Brexit. Le imprese attrezzate si preoccupano già costantemente di monitorare i rischi geopolitici, in particolare osservando e studiando in anticipo i possibili cambiamenti sulle regole del commercio e sui protezionismi per non essere colte di sorpresa. Il “vantaggio” di Brexit è che non si tratta di un rischio apparso all’improvviso (come è stata ad esempio la guerra commerciale USA-Cina) ma che ha dato e dà tuttora alle aziende un tempo ragionevole per prepararsi, anche alle eventualità peggiori.