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“From Hype to Impact”: per gli investimenti in clima tech la vera sfida è dimostrare il ROI



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La ricerca “From Hype to Impact: New Marketing for Advancing Climate Tech” realizzata dal Climate Marketing Lab aiuta a comprendere le ragioni che spingono le imprese a investire nella trasformazione sostenibile o che al contrario rallentano o frenano queste decisioni. L’analisi e le considerazioni dell’autrice Martina Casani

Aggiornato il 1 lug 2024



Martina Casani
Martina Casani autrice della ricerca "From Hype to Impact: New Marketing for Advancing Climate Tech" realizzata dal Climate Marketing Lab

In tema di marketing per la sostenibilità, la ricerca “From Hype to Impact: New Marketing for Advancing Climate Tech” realizzata dal Climate Marketing Lab (disponibile QUI n.d.r.) sul ruolo del marketing nell’accelerare l’adozione delle climate tech, permette di disporre di una lettura originale delle ragioni della scelta (o, come in molti casi accade, le ragioni di una non scelta) delle tecnologie per il clima. Nella prospettiva di identificare aree di miglioramento e favorire l’accelerazione della transizione sostenibile. Ne abbiamo parlato con l’autrice, Martina Casani, che da tempo si occupa di marketing per le climate technologies.

Perché una ricerca sul climate marketing gap?

Da ormai 3 anni, seppur in contesti differenti, assisto a un dilemma, quasi una sorta di maledizione. Detto in maniera tranchant, a tutti piace la sostenibilità, ma pochi “la comprano”. Cosa significa? La vendita di soluzioni per il clima ha cicli molto lunghi, la decisione spesso si snoda tra mille perplessità nell’intento, ovviamente necessario, di coinvolgere tanti interlocutori diversi, che mostrano forti resistenze al cambiamento e conseguentemente all’investimento. Una situazione che appare in aperta contraddizione con il fatto che molte aziende hanno maturato la piena consapevolezza della necessità di investire. A fronte di questa considerazione mi sono chiesta: ma non sarà che chi promuove queste soluzioni non lo fa in modo efficace? In che modo i vendor potrebbero aiutare i buyer ad accelerare la transizione sostenibile? C’è un gap di comunicazione tra queste due categorie? Ho deciso, quindi, di andare alla fonte. E di ascoltare, confrontandola, la voce di 50 professionisti, buyer (ESG / Sustainability Manager e altri decisori, come responsabili acquisti o marketing) e vendor (CEO di piccole aziende o marketing manager di grandi aziende), per intercettare l’esistenza di eventuali distonie.

Qual è la posizione di chi acquista tecnologie per il clima?

Dalla ricerca emerge che i buyer non hanno un compito facile. Le sfide che affrontano quando si tratta di selezionare climate technologies sono tante.

La preoccupazione principale riguarda un punto chiave che sta alla base di questa trasformazione: qual è il reale impatto dei prodotti e servizi che sto acquistando? Impatto ambientale (54% dei rispondenti), non sempre così ovvio e ben misurato e Impatto economico soprattutto (anch’esso 54%), spesso non esplicitato abbastanza nella comunicazione dei vendor.

Questo perché la motivazione di chi adotta nuove tecnologie per l’impresa, in generale, affonda nella risposta alla tipica domanda: “in che modo questo strumento aiuta il mio business”. Che si tratti di un servizio di purificazione dell’aria o di un software di life cycle management.

Molti lamentano anche la complessità nel valutare le specifiche tecniche e la loro integrazione con gli obiettivi ESG aziendali. Un aspetto cruciale, questo, soprattutto se correlato alla difficoltà dei sustainability manager: la resistenza al cambiamento, lamentata da 1/3 del campione. Un ostacolo significativo che indica quanto sia pionieristico il ruolo dei leader della sostenibilità all’interno delle loro aziende. E quanto il supporto dei vendor sia importante, creando un clima di fiducia, nel supportare il proprio cliente nel promuovere queste tecnologie presso i propri stakeholder interni, semplificando tutto il possibile.

La richiesta unanime dei buyer è chiara: canali di approccio intermediati da una persona (81%) / meccanismo di referral (85%) per favorire relazioni di fiducia; comunicazioni più trasparenti; messaging incentrato sui benefit; iniziative di formazione più concrete e approfondita. E molta disponibilità alla collaborazione.

Quali sono invece gli argomenti principali, rispetto alla voce dei vendor?

I vendor di soluzioni clean e climate tech sono consapevoli (molto più di quanto mi aspettassi) che la sfida è dimostrare il ROI delle loro soluzioni (52%). Sfida difficilissima, perché spesso queste tecnologie implicano il cambiamento dei processi, affinché abbiano un impatto reale. E andrebbero valutate nel lungo termine. Altrettanto chiara è la consapevolezza che l’educazione del proprio mercato/cliente debba far parte degli obiettivi di marketing: molti lo fanno e lo ritengono sufficiente (64%); molti vorrebbero farlo di più (28%). E questo è bene, perché risponde ad un bisogno acclarato della controparte. Ma creare una domanda è sempre molto costoso: ben venga, dunque, ad iniziative collaborative e condivise fra partner complementari (es. hardware e software, misurazione CO2 e misurazione altri parametri qualità dell’aria, software per l’impatto ambientale e quello sociale). Un’altra difficoltà – soprattutto per i piccoli vendor – è la disponibilità di budget di marketing sufficienti per lavorare sul branding e su attività di lead generation: in un mercato ancora in divenire, con offerte spesso simili, essere conosciuti e riconosciuti, per gli aspetti differenzianti, in questa fase, è un must: lo zero budget marketing è una utopia. E, anche in questo settore, i clienti, sempre di più, comprano brand, non prodotti.

Quali sono, dunque, gli elementi di sintonia e distonia?

Tra gli aspetti condivisi, il bisogno di correlazione tra tecnologie per il clima e risultati economici. A seguire, l’apertura alla collaborazione, attraverso format che vanno dai workshop a porte chiuse e think tank a eventi di settore e iniziative speciali: aiutano i buyer a capire e adattare le soluzioni al proprio contesto; aiutano i vendor a progettare / migliorare prodotti e servizi, insieme. Infine, condivisione: informazione trasparente, che aiuta a creare un clima di fiducia. Anche a livello di canali di comunicazione, è preferibile che il primo contatto sia creato da una “conoscenza comune” (leggi: posso fidarmi).

Tra gli aspetti divisivi, invece, emergono le diverse modalità di creazione del trust – elemento fondamentale nei processi decisionali. I buyer fanno leva sui propri uffici R&D e sui case studies per creare social proof; i vendor preferiscono certificazioni di terza parte e i canali istituzionali, oltre alla validazione interna. I buyer sono orientati verso esperienze pratiche e apprendimento interattivo come prove gratuite e progetti pilota, poiché queste forniscono informazioni preziose durante il processo decisionale. D’altro canto, i vendor si concentrano più su dimostrare la propria autorevolezza e competenza, ponendo un’enfasi maggiore sulle informazioni aziendali e dettagli tecnici e teorici delle soluzioni.

Quali sono dunque in sintesi i messaggi di questa ricerca?

Questa ricerca sottolinea in modo inequivocabile che la sostenibilità va approcciata in chiave di business. In questo contesto, è cruciale un dialogo efficace tra buyer e vendor, per quattro motivi:

  • accelerare la comprensione delle soluzioni sostenibili
  • vincere un fisiologico grado di diffidenza, grazie alla fiducia
  • aiutare i buyer a propagarle presso i propri clienti interni
  • promuovere un cambiamento reale, contestualizzando le nuove tecnologie nel proprio caso d’uso.

È necessaria una comunicazione che sappia ispirare, rassicurare e convincere tutti gli attori coinvolti – andando a toccare le corde della convenienza intesa nel senso di vantaggio competitivo. Parafrasando Satya Nadella, “every company is a sustainable company”: non si può prescindere dalla sostenibilità se si vuol rimanere sul mercato.

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