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Loss&Damage: c’è un accordo-quadro, ma gli attivisti sono sono in disaccordo

Raggiunta l’intesa che delinea il quadro per il tanto combattuto Fondo per le perdite e i danni, istituito alla COP27 per aiutare i paesi vulnerabili ad affrontare i danni causati dal riscaldamento globale. Ad ospitarlo sarà la Banca mondiale per 4 anni, ma a scatenare l’ira degli attivisti e dei Paesi in via di sviluppo è soprattutto la clausola ottenuta dagli Usa: nessun obbligo di finanziamento, ma solo azioni volontarie dei Paesi più ricchi. Nessuna indicazione sull’effettivo ammontare degli aiuti che potranno essere erogati

Pubblicato il 06 Nov 2023

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A poche settimane dall’avvio della 28a conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, i negoziatori hanno finalmente raggiunto un accordo che delinea il quadro per il tanto combattuto Fondo per le perdite e i danni (Loss&Damage), istituito alla COP27 lo scorso anno per aiutare i paesi vulnerabili ad affrontare i danni causati dal riscaldamento globale. Dopo lunghe ed estenuanti trattative, i 24 membri del Comitato di transizione hanno prodotto un documento (SCARICA QUI IL TESTO ORIGINALE) che contiene raccomandazioni su come funzionerebbe il Fondo, compreso chi riceverebbe i soldi e chi pagherebbe.

Fondo presso la Banca mondiale per 4 anni

Perdite e danni, il termine COP per risarcire le perdite e i danni economici, sociali e culturali causati dai cambiamenti climatici di origine antropica ai sistemi naturali e umani, è stato inserito nell’agenda del vertice per la prima volta in quasi tre decenni. I Paesi in via di sviluppo hanno sostenuto per anni che sono le nazioni industrializzate – responsabili di circa l’80% delle emissioni storiche di gas serra – a dover pagare per i danni che hanno causato.  Con questa premessa, il testo finale invita a “versare contributi finanziari, con i Paesi sviluppati che continueranno a prendere l’iniziativa per fornire risorse finanziarie per l’avvio dell’operatività del Fondo”.

Garantisce inoltre che la Banca Mondiale ospiti il Fondo su base provvisoria di quattro anni, nonostante gli Stati Uniti spingano per renderlo permanente. I paesi in via di sviluppo hanno inizialmente espresso opposizione all’idea che la Banca ospitasse il Fondo a causa della loro mancanza di fiducia nel significativo spostamento dell’istituzione verso la promozione dell’azione per il clima.

“Pagamenti volontari”: l’escamotage di Washington

L’accordo include anche una disposizione richiesta dagli Stati Uniti per effettuare pagamenti volontari, sostenuta dalla tesi secondo cui i paesi ricchi non sono obbligati a pagare per perdite e danni ai sensi dell’Accordo di Parigi. Ciò di fatto lascia all’amministrazione Biden e ad altri grandi inquinatori la possibilità di non contribuire al Fondo.

In una dichiarazione, un funzionario del Dipartimento di Stato americano ha affermato: “Nessun governo, o sottoinsieme di governi, dispone di risorse sufficienti per soddisfare le esigenze di finanziamento delle nazioni particolarmente vulnerabili nella misura richiesta. Ecco perché abbiamo chiarito, nel corso di questi negoziati, quanto sia cruciale che questo fondo sia in grado di ricevere input finanziari dalla più ampia gamma di fonti, comprese quelle innovative come i mercati del carbonio, i meccanismi internazionali di determinazione dei prezzi e altre che possono servire a integrare le sovvenzioni e i prestiti agevolati da fonti pubbliche e private”.

Un testo che ha già scatenato proteste

Diversi paesi in via di sviluppo e sostenitori della giustizia climatica hanno criticato pesantemente l’accordo di sabato per la mancanza di obiettivi precisi sulla quantità di denaro che il fondo erogherà e per non aver delineato chiare responsabilità delle nazioni sviluppate. Sostengono che queste decisioni mineranno la capacità del Fondo di soddisfare i bisogni e le priorità delle popolazioni e delle comunità colpite del Sud del mondo, che probabilmente raggiungeranno trilioni di dollari all’anno entro la fine dell’attuale decennio.

Gli impegni disattesti dei Paesi sviluppati

I Paesi in via di sviluppo hanno accresciuto la sfiducia nei paesi ricchi dopo anni di impegni finanziari non mantenuti, tra cui l’impegno del 2009 di consegnare 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020, che rimane ancora oggi insoddisfatto.
Al momento dell’istituzione del Fondo nel 2022, solo una manciata di Stati membri delle Nazioni Unite, tra cui Danimarca, Germania, Austria, Belgio, Irlanda, Nuova Zelanda e Canada, si sono impegnati a finanziarlo.

Un Fondo che “non garantisce giustizia, equità e diritti umani”

“La continua negazione da parte di ricchi inquinatori storici della loro responsabilità di pagare per i danni climatici, nascondendosi dietro paragrafi e note a piè di pagina, non è in contatto con la realtà”, ha affermato Lien Vandamme, attivista senior presso il Centro per il diritto ambientale internazionale (CIEL), che crede il Fondo non riesce a garantire giustizia, equità e diritti umani.

“Il diritto internazionale è chiaro e i futuri chiarimenti da parte dei tribunali internazionali sugli obblighi legali degli Stati nel contesto del cambiamento climatico – e sulle conseguenze della loro violazione – diventano sempre più importanti poiché le nazioni ricche continuano a negare giustizia alle comunità in prima linea nell’ambito dell’UNFCCC”, Vandamme ha scritto sui social.

Tutti gli occhi sono ora puntati sui leader mondiali e sui negoziatori che faranno proprie le raccomandazioni del Comitato alla COP28, che inizierà il 30 novembre a Dubai.

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