Il Sesto Rapporto di Valutazione (AR6) dell’IPCC è stato oggetto di discussione a molti livelli e ha suscitato reazioni contrastanti, anche da parte di figure che esprimono forme di scetticismo, se non di negazionismo, rispetto alla componente antropogenica dei cambiamenti climatici. Questo documento porta una serie di evidenze scientifiche rispetto alle quali qualsiasi organizzazione e qualsiasi cittadino ha la possibilità di valutare quanto sia oggi importante e necessario agire in modo deciso e veloce per evitare i rischi oggettivi e drammatici a cui sta andando incontro il pianeta.
Il rapporto ha un valore scientifico e rappresenta un punto di riferimento per tutti i paesi, per le istituzioni, per il mondo scientifico in generale quanto per il mondo delle imprese. Con questo servizio si vuole proporre una lettura del Sesto Rapporto di Valutazione (AR6) dell’IPCC rispetto a quelle evidenze e a quelle indicazioni che più di altre possono essere di supporto per indirizzare scelte organizzative e aziendali legate ai principi ESG.
Il rapporto completo e il summary for policymaker sono accessibili QUI
Il ruolo dell’IPCC
L’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) è l’organismo internazionale dedicato alla ricerca scientifica relativa al cambiamento climatico. L’IPCC è stato istituito nel 1988 dalla World Meteorological Organization (WMO) e dall’United Nations Environment Programme (UNEP) per fornire al mondo politico e alle istituzioni delle valutazioni scientifiche regolari sul cliamte change, sui suoi impatti e rischi futuri, e sulle opzioni per l’adattamento e la mitigazione.
Le valutazioni dell’IPCC sono anche alla base dei negoziati alla Conferenza delle Nazioni Unite sul Clima – la United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC) (Vedi IPCC a COP26).
In particolare, i report dell’IPCC forniscono delle indicazioni per le valutazioni dei decisori politici ma non sono prescrittive. Sono nella condizione di presentare proiezioni e prospettive relative ai cambiamenti climatici futuri e indicare diversi scenari e rischi. Rappresentano in sostanza una base per un confronto e una analisi di diverse modalità di azione, ma non forniscono istruzioni in merito alle azioni da intraprendere.
La partecipazione all’IPCC è aperta a tutti i paesi della WMO e delle Nazioni Unite, conta su 195 membri e il Panel, composto da rappresentanti degli stati membri, si riunisce in sessioni plenarie. Il Bureau dell’IPCC, eletto dai governi membri, fornisce orientamenti al Panel sugli aspetti scientifici e tecnici.
Interdipendenza e interconnessione: parole chiave dell’IPCC AR6
Prima di tutto va sottolineato che l’IPCC AR6 riconosce in modo chiaro l’importanza fondamentale dell’interdipendenza tra i cambiamenti climatici, l’evoluzione degli ecosistemi e della biodiversità e le trasformazioni che caratterizzano le società umane. Il valore di questa relazione determina il livello di conoscenze che si possono raggiungere e le possibilità che si possono attuare e che stanno alla base delle prospettive legate alla mitigazione, all’adattamento e di fatto alle diverse possibilità di creare nuove forme di sviluppo sostenibile.
La responsabilità dell’Uomo
Le emissioni di gas serra rappresentano la causa primaria del riscaldamento globale, un fenomeno che va messo in relazione con i temi legati alla produzione di energia, all’uso del suolo, all’evoluzione degli stili di vita e dei modelli di consumo che hanno cambiato il rapporto tra le persone, il pianeta e le risorse.
Una delle principali evidenze del rapporto riguarda l’evoluzione della temperatura superficiale globale caratterizzata da una crescita che, nel periodo che corre tra gli anni ’70 ad oggi, è stata più elevata che in qualsiasi altro periodo della storia.
Parallelamente, le emissioni nette globali legate all’attività dell’uomo di GHG nel 2019 sono cresciute del 12% rispetto al 2010 e del 54% rispetto al 1990. In particolare, le emissioni medie annuali di GHG nella decade 2010-2019 sono state le più alte di qualsiasi altro decennio.
Le responsabilità di energia, industria, trasporti, agricoltura
In termini di settori, le emissioni sono primariamente prodotte dai settori dell’energia, dell’industria, dei trasporti e degli edifici, oltre che dall’agricoltura e da altre tipologie di utilizzo del suolo. Purtroppo, le riduzioni delle emissioni di CO2 conseguite grazie ai miglioramenti nella gestione della produzione energetica e nei processi industriali, sono state significative ma inferiori agli aumenti delle emissioni che hanno invece caratterizzato la crescita delle attività industriali, della domanda di energia, dei trasporti, dell’agricoltura e del mondo building.
La geografia delle emissioni
Il rapporto mette poi in luce la sperequazione a livello di emissioni tra le diverse aree del pianeta. I Paesi Meno Sviluppati e in generale i Paesi in Via di Sviluppo presentano emissioni pro capite molto più basse rispetto alla media globale.
Appare come un dato eclatante che il 10% delle famiglie con le emissioni pro capite più elevate contribuisce al 34-45% delle emissioni globali di GHG in termini di consumo domestico, mentre il 50% delle famiglie con emissioni inferiori contribuisce al 13-15% delle emissioni globali.
Un dato che impone una riflessione profonda sul ruolo degli stili di vita, dei modelli di consumo di energia e di risorse in generale e sulla necessità di ripensare il rapporto tra bisogni e risorse necessarie per soddisfarli.
In termini di cambiamenti il Sesto Rapporto di Valutazione (AR6) dell’IPCC rileva, come è peraltro evidente anche attraverso le cronache quotidiane, che i cambiamenti climatici causati dall’uomo stanno già determinando eventi meteorologici e climatici estremi.
Un fenomeno che sta manifestando danni e perdite molto gravi confermando la tendenza molto chiara in base alla quale le aree del pianeta e le comunità con minori responsabilità in merito alle cause dei cambiamenti climatici sono anche che sono più colpite dai suoi effetti.
Mare: risorse e rischi
Uno dei cambiamenti più drammatici e più denso di interconnessioni con altri fattori di trasformazione è rappresentato dall’innalzamento del livello del mare. Un fenomeno che rischia di cambiare in modo anche molto radicale le condizioni di vita di tante popolazioni. Il livello medio globale del mare è aumentato di 0,20 m tra il 1901 e il 2018.
Una crescita che è caratterizzata da diverse fasi. Il tasso medio di aumento del livello del mare è stato relativamente modesto, nell’ordine di 1,3 mm all’anno tra il 1901 e il 1971. È però cambiato in modo significativo passando a 1,9 mm all’anno nel periodo tra il 1971 e il 2006, ma il dato più preoccupante riguarda il periodo tra il 2006 e il 2018 quando la crescita è arrivata toccare i 3,7 mm all’anno.
L’interdipendenza tra gli ecosistemi naturali e gli ecosistemi umani
Ondate di calore, siccità, maggiore intensità a livello di precipitazioni, crescita nel numero e nella violenza dei cicloni tropicali, sono purtroppo tutti fattori metereologici in crescita e si calcola che tra i 3,3 e i 3,6 miliardi di persone vivano oggi in aree particolarmente esposte a questi rischi.
E su questo punto il Sesto Rapporto di Valutazione (AR6) dell’IPCC insiste in modo particolare: la interdipendenza tra gli ecosistemi naturali e gli ecosistemi umani. L’impatto dei rischi climatici non è limitato agli effetti e alle conseguenze drammatiche che accompagnano questi eventi, ci sono interdipendenze e interconnessioni profonde che rendono questi eventi assai più gravi.
Un esempio è rappresentato dai dati che mostrano come l’aumento di eventi estremi abbia aggravato il livello di insicurezza alimentare di molte popolazioni e abbia reso ancora più difficile e insostenibile la situazione idrica. Problemi questi che hanno colpito, come già osservato, soprattutto i Paesi meno sviluppati. L’analisi del report osserva una crescita dei dati relativi alla mortalità legata a eventi climatici estremi, nel periodo 2010 – 2020, che nei paesi in via di sviluppo è ben 15 volte superiore rispetto alle aree con una minore vulnerabilità.
Le responsabilità e i benefici dell’agricoltura
La situazione relativa alla produttività agricola vive una doppia dimensione. Gli effetti dei cambiamenti climatici hanno rallentato la crescita globale ma soprattutto hanno compromesso la crescita nelle regioni più esposte e, come già evidenziato, più deboli e fragili. In parallelo sono aumentati i livelli di insicurezza alimentare e stanno cambiando tante attività produttive. Gli effetti del riscaldamento e dell’acidificazione degli oceani hanno un impatto sempre più rilevante a livello di pesca e acquacoltura.
Ma il problema più importante riguarda il dato secondo il quale metà della popolazione mondiale sta subendo gli effetti di una grave scarsità di acqua per buona parte dell’anno. Uno scenario che ancora una volta impone di guardare a questo problema nel segno dell’interdipendenza con altri valori legati alla sostenibilità. In altri termini le difficoltà legate all’accesso ad acqua dolce e sicura rischia di compromettere o indebolire gran parte degli sforzi per raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile.
I rischi connessi alla perdita di biodiversità
La biodiversità è l’altra grande vittima del cambiamento climatico: gli eventi caratterizzati da forti ondate di calore stanno danneggiando in modo irreversibile molti ecosistemi e stanno modificando in modo altrettanto irreversibile le attività economiche che si svolgono in quelle aree. In particolare, le attività agricole che soffrono anche a causa di cambiamenti drammatici a livello idrogeologico e intere aree geografiche che vivono periodi di siccità estremamente prolungati tali da modificare in modo radicale e le condizioni di vita e la stessa morfologia del territorio.
Ci sono due altre dimensioni che il rapporto prende in considerazione e sulle quali raccomanda attenzione: il tema degli effetti negativi a livello di equità sociale e l’impatto che il cambiamento climatico sta esprimendo a livello generale sulle persone che vivono nei grandi centri urbani. Le città per come sono state concepite amplificano gli effetti delle ondate di calore, le infrastrutture non sono state progettate per affrontare queste situazioni estreme e risultano a loro volta spesso gravemente colpite dagli effetti dei cambiamenti climatici.
La gestione delle risorse idriche in particolare, i trasporti, la stessa sanità, chiamata ad affrontare nuove emergenze in condizioni sempre più difficili e poi ancora i sistemi energetici, oggi più che mai sotto pressione sia per le necessità di gestire una transizione sia per una domanda di energia sempre più difficile da ottimizzare. Il bilancio di questa situazione è una riduzione del benessere in generale e una maggiore esposizione ai rischi per le fasce della popolazione più fragili e con minori possibilità di adottare contromisure di adattamento a queste nuove condizioni.
Adattamento: a che punto siamo
E proprio sull’adattamento il report IPCC AR6 dedica una parte molto importante in termini di analisi della situazione e di valutazione delle possibili prospettive.
In generale la pianificazione e l’attuazione di politiche di adattamento è avanzata. Tuttavia, nonostante i progressi, esistono problematiche sulle modalità stesse dell’adattamento che sono destinate ad aggravarsi. Ci sono ecosistemi che hanno esaurito la naturale flessibilità all’adattamento. Le risorse finanziarie destinate allo sviluppo di misure per favorirlo risultano insufficienti, soprattutto per quanto riguarda le azioni che interessano i paesi in via di sviluppo.
Nei paesi più sviluppati la generale consapevolezza degli impatti e dei rischi climatici ha indotto molti stati e molte città a definire delle strategie specifiche di adattamento che tengono conto sia dell’evoluzione dei cambiamenti climatici che di quella sociale ed economica.
Gli esempi relativi a nuove forme di adattamento non mancano, nel settore dell’agricoltura in modo particolare, nella gestione delle infrastrutture ambientali, nella gestione delle risorse idriche, nell’irrigazione, nell’uso del suolo, nel rapporto tra comunità e territori. Tanti esempi e tanti modelli che portano nuovi risultati e che stanno definendo un approccio all’adattamento anche a livello di ripensamento delle città.
In questo caso, gli esempi riguardano la creazione di ecosistemi con una maggiore presenza di verde urbano, il lavoro per ripristinare zone umide e aree forestali allo scopo di limitare gli effetti delle ondate di calore. Altre misure più indirizzate ad aumentare la sicurezza hanno lo scopo di disporre delle forme di allarme a fronte del rischio di disastri e la costruzione di reti di sicurezza sociale per anticipare, verificare e condividere tutti i segnali che preludono ai pericoli collegati a eventi metereologici estremi.
Un aspetto questo, in termini di adattamento, che riguarda la capacità di aumentare la sicurezza presso le persone più fragili, quelle più esposte ai maggiori rischi che spesso sono anche le meno informate rispetto a questi pericoli. E il report sottolinea più volte che è necessario affrontare un tema legato alle difficoltà di adattamento ai cambiamenti climatici che sta colpendo proprio i gruppi più vulnerabili e più esposti.
Se si guarda poi al tema dell’adattamento dalla prospettiva dell’industria più vicina all’ambiente vale a dire dell’agricoltura il report mette in evidenza come il tema della flessibilità dei limiti all’adattamento sia al centro delle esperienze di comunità di piccoli agricoltori che vivono in particolare lungo alcune aree costiere. Le principali problematiche riguardano i vincoli finanziari, la governance, il ruolo delle istituzionali e della politica. Il tipo di attenzione raccomandato dal report, come detto poc’anzi, riguarda il fatto che ci sono ecosistemi costieri o di montagna che hanno purtroppo esaurito la loro flessibilità naturale in termini di adattamento.
Il lavoro sulla mitigazione: quali risultati?
Anche a livello di politiche e di iniziative per la mitigazione si evincono progressi importanti rispetto al precedente report AR5. Progressi che non sono tuttavia sufficienti per segnare una svolta. Sulla base delle previsioni basate sulla situazione attuale le emissioni globali di GHG nel 2030, indicano come probabile una crescita della temperatura superiore ai 1,5°C durante il 21° secolo con maggiori difficoltà per tutte le azioni volte a limitare il riscaldamento al di sotto di 2°C. Anche in questo caso il report denuncia che i flussi finanziari per sostenere le trasformazioni necessarie non sono sufficienti. La trasformazione sostenibile implica una profonda trasformazione economica, industriale e sociale i cui costi sono oggi difficili da affrontare.
Non si può dire peraltro che la situazione non sia chiara. L’UNFCCC, il Protocollo di Kyoto e l’Accordo di Parigi hanno definito in modo preciso gli impegni nazionali. Con l’Accordo di Parigi, adottato nell’ambito dell’UNFCCC, con una partecipazione quasi universale, sono arrivati obiettivi a livello nazionale e sub-nazionale ed è arrivata anche una maggiore trasparenza in termini di azioni a livello di azione climatica. Non mancano nello stesso tempo gli strumenti normativi ed economici che hanno portato in molti paesi e rivedere le forme di efficienza energetica, ad agire a livello di biodiversità, a ridurre la deforestazione e in generale, a produrre una spinta complessiva importante alla riduzione delle emissioni.
In generale, le politiche di mitigazione hanno portato a risultati importanti in termini di riduzione della CO2 che però hanno compensato solo in parte la crescita delle emissioni globali che sta continuando senza sosta.
Tra le misure che più stanno mostrando i loro effetti in termini di azioni per la mitigazione c’è la diffusione di progetti per la produzione di energie pulite: solare ed eolica in particolare a cui si affianca un piano di elettrificazione dei sistemi urbani che consente di modificare il rapporto tra produzione e consumo. In questo ambito si colloca anche, in termini di mitigazione, la creazione di vere e proprie infrastrutture verdi urbane, la gestione delle foreste, delle colture e del suolo in generale.
Ma l’altro grande tema che viene indicato nel rapporto riguarda i comportamenti che a loro volta devono fare parte di una visione ampia e completa della mitigazione e che possono portare vantaggi e risultati concreti a molti livelli. Il tema della trasformazione dei sistemi agroalimentari risulta a sua volta particolarmente rilevante, per il contributo che può dare in tempi anche molto brevi a livello di riduzione di ogni forma di spreco e, in tempi più lunghi, come sviluppo di una domanda di beni che sia effettivamente sostenibile.
La diffusione delle energie pulite
I risultati di questo processo di mitigazione dovrebbero lasciar ben sperare negli effetti benefici di una accelerazione. Il report mette in evidenza che dal 2010 al 2019 si sono registrati cali progressivi nei costi unitari dell’energia solare, dell’energia eolica e, aspetto particolarmente rilevante, dei sistemi di accumulo e delle batterie agli ioni di litio. Questa diminuzione nei costi è stata affiancata da una importante crescita nella domanda e da una maggiore diffusione. Al netto di tante e diverse situazioni il report rileva che, grazie a questo doppio fenomeno (riduzione dei costi e crescita nella diffusione) si sta dimostrando che aumentano i casi in cui la gestione dei sistemi ad alta emissione risulta più costosa rispetto al passaggio a sistemi a bassa emissione.
Ma proprio sulle emissioni c’è qualche punto dolente che necessita di essere chiarito. Nel report si segnala una differenza tra le emissioni globali di GHG nel 2030 associate all’attuazione delle Nationally Determined Contribution NDCs (oggetto di analisi prima della COP26 di Glasgow del 2021) e il calcolo delle emissioni associate ai percorsi di mitigazione modellizzati che limitano il riscaldamento a 1.5°C senza o con un limitato overshoot o che limitano il riscaldamento a 2°C.
I percorsi di mitigazione modellizzati a livello globale che limitano il riscaldamento a 1.5°C implicano profonde riduzioni delle emissioni globali di GHG in questo decennio mentre i percorsi modellizzati che sono coerenti con le NDCs annunciate prima della COP26 fino al 2030 rischiano di portare a un riscaldamento globale mediano di 2.8 °C entro il 2100.
Sebbene molti abbiano segnalato l’intenzione di raggiungere zero emissioni nette di GHG o CO2 nette intorno al 2050, non c’è ancora una coerenza tra tutti questi impegni e al momento le azioni per attuarli sono ancora molto limitate. In definitiva, il report indica come molto probabile il superamento di 1.5°C di temperatura durante il 21° secolo.
Ma non è solo una questione di allineamento tra gli NDCs e le prospettive che forniscono maggiori garanzie in termini di contenimento della temperatura. Il report guarda alle azioni concrete e segnala che l’adozione di tecnologie a basse emissioni è purtroppo ancora in ritardo nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo. La debolezza economica di un paese si riflette in modo diretto sulla capacità di agire a livello di riduzione delle emissioni e una delle cause (ancora una volta) è nella scarsità di risorse finanziarie destinate a questa trasformazione.
Sebbene l’entità dei flussi finanziari per il clima sia aumentata nell’ultimo decennio questa crescita è però rallentata dal 2018. A parte questa frenata di per sé molto preoccupante, il report denuncia che i flussi finanziari si sono in ogni caso sviluppati in modo eterogeneo in termini geografici e in termini di settori coinvolti. I finanziamenti pubblici e privati per i combustibili fossili restano ancora più elevati rispetto a quelli per l’adattamento e la mitigazione del clima.
In generale, la stragrande maggioranza dei finanziamenti destinati al clima ha come obiettivo la mitigazione e non è in ogni caso sufficiente per raggiungere i livelli necessari a limitare il riscaldamento a meno di 2°C o a 1.5°C in tutti i settori e regioni.
Come più volte denunciato, anche in occasione della COP26 di Glasgow e della COP27 i finanziamenti pubblici e privati che sono stati mobilitati in favore di azioni per contrastare i cambiamenti climatici nei paesi in via di sviluppo erano nel 2018 ben al di sotto del target fissato nell’ambito dell’UNFCCC e dell’Accordo di Parigi di arrivare a mettere a disposizione 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020, proprio per dare vita a un’azione di mitigazione che fosse effettivamente significativa e trasparente in relazione alla capacità di agire presso tutte le realtà coinvolte.
Cosa ci riserva il futuro?
A fronte di una situazione in cui le emissioni di gas serra proseguono con questo ritmo, non si può non prevedere un aumento del riscaldamento globale destinato a raggiungere gli 1,5°C in un periodo purtroppo non molto lontano. In questa situazione ogni incremento del riscaldamento globale è destinato a comportare un aumento dei fattori di rischio. Nel caso in cui si riuscissero a ottenere riduzioni importanti e rapide nelle emissioni di gas serra si otterrebbe un rallentamento del riscaldamento globale in un arco di almeno due decenni.
In altre parole, i risultati della mitigazione, per quanto si possa accelerare nella riduzione delle emissioni, si trasformano in benefici legati al rallentamento nel riscaldamento con una latenza temporale molto significativa.
La maggiore probabilità oggi è quella di uno scenario nel quale si superano i 1,5°C a causa di emissioni ancora troppo elevate. Ma nello stesso tempo il report segnala che, accanto al tema primario delle emissioni di CO2, si colloca anche quello delle riduzioni mirate di inquinanti atmosferici che possono portare a miglioramenti della qualità dell’aria entro un arco di tempo più ristretto. Se le emissioni di CO2 restano di questa entità, le capacità di assorbimento delle risorse naturali e degli oceani vanno incontro a una riduzione causata anche da fenomeni, come l’acidificazione dei mari, che riduce la capacità di assorbimento.
In questo scenario ogni area geografica sarà soggetta a una dinamica di cambiamenti specifica, ma sempre più intensa e rilevante. È prevedibile che le ondate di calore e i fenomeni di siccità diventeranno più frequenti così come più frequenti saranno gli eventi atmosferici legati all’innalzamento dei mari, comprendendo fenomeni di intensificazione di cicloni tropicali e tempeste. In questo contesto, i rischi e le conseguenze legate al cambiamento climatico sono destinati ad aumentare ad ogni incremento del riscaldamento globale.
A questo proposito va segnalato che rispetto al report precedente, i livelli di rischio aggregati globali sono valutati con una scala di pericolosità e di intensità diversa in ragione della maggiore conoscenza acquisita a livello di interconnessione tra processi di trasformazione legati ai cambiamenti climatici e di maggiore conoscenza relativa al comportamento degli ecosistemi naturali e sociali a fronte di eventi meteorologici estremi.
Davanti all’ipotesi di ulteriori livelli di riscaldamento, i rischi collegati ai cambiamenti climatici saranno più difficili da valutare e più complessi da gestire. Il tema dell’interazione tra fenomeni diversi può provocare nuovi rischi che vanno ad amplificare i danni, con un effetto a cascata. Un esempio in questo senso è rappresentato dai temi dell’instabilità nell’approvvigionamento alimentare e dell’insicurezza alimentare che possono essere aggravati dagli effetti di eventi climatici estremi.
Aumenta la pressione sui grandi centri urbani
Il dato di fatto è che l’esposizione futura ai pericoli climatici sta drammaticamente aumentando anche a causa di alcune tendenze socio-economiche che aumentano la pressione sui grandi centri urbani. Fenomeni che vanno messi in relazione con i tanti processi migratori che, dovuti anche a problemi climatici, stanno contribuendo a cambiare la demografia di tante nazioni. Un altro aspetto che contribuisce ad aumentare la vulnerabilità degli ecosistemi territorialmente più fragili e meno dotati di risorse per gestire forme di adattamento.
Un fenomeno che va messo a sua volta in connessione con l’aumento dei rischi di perdita di biodiversità e di cambiamento profondo negli ecosistemi. Foreste, barriere coralline, aree delle regioni artiche sono destinate a grandi mutazioni e nel caso di un aumento della temperatura tra 2°C e 3°C, l’impatto sulle calotte glaciali è tale da aumentare l’innalzamento del livello del mare con ripercussioni profonde nei modelli meteorologici regionali e nella vita dei grandi centri più vicini al mare.
Questi sono esempi di scenari che potrebbero mettere in discussione le ipotesi di adattamento sin qui elaborate e provocare un ulteriore aumento nei rischi legati alle difficoltà di adattamento.
Nessun dubbio sul fatto di agire, ma come
Per limitare il riscaldamento globale causato dall’uomo occorre arrivare a emissioni nette di CO2 pari a zero. Si devono naturalmente calcolare le emissioni cumulative di carbonio prodotte sino al raggiungimento del livello Net Zero e il report denuncia che il livello di riduzione delle emissioni di gas serra in questo decennio sarà assolutamente determinante per capire se il riscaldamento potrà essere limitato a 1.5°C o 2°C.
Fatta questa premessa si deve aggiungere che la possibilità di raggiungere emissioni nette di gas serra pari a zero passa dalla riduzione delle emissioni di CO2, di metano e di altri gas serra, e implica la possibilità contare sulla capacità di gestire volumi di emissioni nette negative di CO2. Con le emissioni nette di gas serra pari a zero, si può prevedere, pur con una latenza di anni, un graduale declino delle temperature superficiali globali.
Nel caso in cui le emissioni annuali di CO2 nel decennio 2020 – 2030 rimanessero, in media, allo stesso livello del 2019, le emissioni cumulative supererebbero il livello di carbonio rimanente per limitare l’aumento della temperatura a un livello non superiore a 1.5°C
Si è visto che i percorsi di mitigazione a livello globale finalizzati a raggiungere obiettivi Net Zero di CO2 e GHG includono la transizione da fonti energetiche basate su combustibili fossili ma le prospettive di trasformazione sono legate anche ad altri fattori come la capacità di cattura e stoccaggio del carbonio (CCS), lo sviluppo di fonti di energia rinnovabili, un eventuale utilizzo di combustibili fossili ma con CCS, una importante evoluzione della domanda nel segno della sostenibilità e un miglioramento dell’efficienza nella gestione e nel consumo di tutte le risorse.
Negli scenari ipotizzati a livello globale ci sono temi che possono svolgere un ruolo fondamentale come il cambiamento dell’uso del suolo, la riforestazione e la riduzione della deforestazione, e l’approvvigionamento energetico.
Ma cosa succede se…
Nel caso in cui il riscaldamento globale dovesse superare il livello stabilito dagli Accordi di Parigi di 1,5° C si dovrebbero prevedere ulteriori impatti negativi, alcuni molto probabilmente irreversibili, e ulteriori pericoli per i sistemi umani e naturali difficili da stimare.
Più è grande l’ampiezza e più è lunga la durata di un eventuale overshoot, inteso come aumento della temperatura superiore a 1,5° C, più gli ecosistemi e le società sono esposti a cambiamenti più ampi, diffusi e profondi.
Superare 1.5°C comporterà impatti negativi irreversibili su certi ecosistemi a bassa resilienza, come gli ecosistemi polari, montani e sulle aree costiere che più sono esposte all’innalzamento dei mari.
Nello stesso tempo più è rilevante l’overshoot e maggiore sarà la quantità di emissioni nette negative di CO2 necessarie per tornare a 1.5°C entro il 2100.
I risultati di un’azione immediata
Un’azione tempestiva di mitigazione profonda, affiancata da azioni di adattamento da attuare in questo decennio, sarebbero in grado di ridurre le perdite e i danni previsti per gli esseri umani e per gli ecosistemi. Al contrario un’azione di mitigazione e di adattamento in ritardo ridurrebbe la fattibilità e aumenterebbe le perdite e i danni. In sostanza, anche in termini di valutazione economica, le azioni nel breve termine comportano investimenti iniziali elevati ma una probabilità di risultato positivo più elevata.
Le azioni di adattamento non implicano necessariamente e solo dei tempi lunghi. Al netto della considerazione che risulta sempre più necessario lavorare per cercare di unire adattamento e mitigazione creando sinergie e riducendo i compromessi. Inoltre, è importante considerare che l’azione climatica accelerata può anche portare ad altri benefici. La salute ottenibile grazie a un minore inquinamento dell’aria unitamente a forme di mobilità attiva e a cambiamenti nelle diete possono generare benefici legati al miglioramento della produttività agricola, dell’innovazione, del benessere, della sicurezza alimentare e della conservazione della biodiversità.
In ogni caso, il beneficio economico e sociale connesso alla capacità di limitare il riscaldamento globale a 2°C supera i costi necessari per la mitigazione. Ci sono poi vie di mitigazione più ambiziose che implicano cambiamenti importanti a livello economico. Si tratta di cambiamenti che possono essere supportati da riforme fiscali, finanziarie, istituzionali e normative e da politiche macroeconomiche in grado di incentivare e favorire una crescita basata su modelli imprenditoriali a basse emissioni sostenibili e dalla costruzione di reti di sicurezza resilienti al clima e di protezione sociale.
In questo caso le transizioni dei sistemi includono l’implementazione di tecnologie a bassa o zero emissione e l’adozione di cambiamenti socio-culturali e comportamentali che si appoggiano a loro volta all’adozione di tecnologie innovative e alla diffusione di modelli di protezione sociale.
Le prospettive di sviluppo in funzione dei settori
Lo sviluppo di sistemi energetici a zero emissioni nette di CO2 passa da una riduzione notevole nell’uso complessivo di combustibili fossili, da un eventuale utilizzo minimizzato di combustibili fossili mitigati e dall’utilizzo di tecniche di cattura e stoccaggio del carbonio, dall’utilizzo di sistemi elettrici che non emettono CO2 netta; dalla diffusione dell’elettrificazione; dall’innovazione nella conservazione dell’energia e nel miglioramento dell’efficienza nel suo utilizzo.
La diversificazione della generazione energetica unitamente alla gestione intelligente della domanda a livello di stoccaggio e dell’efficienza energetica a livello di consumo possono aumentare l’affidabilità energetica nel suo complesso e ridurre le vulnerabilità al cambiamento climatico.
Nel caso dell’industria e dei trasporti la riduzione delle emissioni passa attraverso un’azione coordinata lungo tutta la catena del valore in grado di comprendere tutte le opzioni legate alla mitigazione, all’evoluzione della domanda, all’efficienza energetica, alla ricerca di nuovi materiali, alla creazione di modelli circolari.
Nei trasporti, in particolare, i biocarburanti sostenibili possono supportare la mitigazione delle emissioni di CO2 nella navigazione, nell’aviazione e nel trasporto terrestre pesante, ma per essere effettivamente applicabili su larga scala necessitano di miglioramenti importanti nei processi di produzione e di riduzioni dei costi.
Rimanendo nei trasporti l’evoluzione verso i biocarburanti sostenibili può portare importanti benefici anche in termini di mitigazione delle emissioni legate al trasporto terrestre nel breve e medio termine, mentre i veicoli elettrici, nel caso di energia prodotta da fonti rinnovabili o a basse emissioni, presenta il più importante potenziale di mitigazione. In questo senso un risultato importante è legato ai progressi ottenuti a livello di tecnologie delle batterie anche per arrivare all’elettrificazione di mezzi di trasporto più pesante.
Mitigazione a livello di città e di infrastrutture
Un discorso a parte va riservato ai temi della mitigazione legata all’evoluzione dei grandi centri abitati, dei grandi insediamenti e delle infrastrutture.
Il raggiungimento di obiettivi di riduzione delle emissioni deve passare necessariamente da una rivisitazione del modo in cui sono concepiti i sistemi urbani. In particolare i fattori più rilevanti che a livello di città possono incidere su adattamento e mitigazione riguardano la pianificazione stessa degli insediamenti e gli spazi assegnati alle infrastrutture, all’uso del suolo, alla presenza di verde, ma anche la logica che guida la mobilità cittadina unitamente alle modalità di costruzione e di gestione degli edifici, alla tipologia di servizi erogati.
Dalla transizione dei grandi centri urbani e delle città in generale si potranno ottenere benefici concreti in termini di mitigazione, ma anche di adattamento alle nuove condizioni e con l’adattamento si potranno ridefinire una serie di benefici anche in termini di benessere e di salute. Il rapporto segnala il ruolo speciale che deve essere affidato all’infrastruttura verde, ai sistemi naturali e alle aree acquatiche sia per l’assorbimento e lo stoccaggio del carbonio sia per svolgere una funzione di mitigazione delle ondate di calore. La progettazione e l’evoluzione dei centri abitati dovrà essere sempre di più basata su una combinazione e un equilibrio tra zone verdi e zone grigie, anche con lo sguardo rivolto alla gestione dei fattori di rischio.
Le componenti legate alla terra, all’oceano, alla produzione e al consumo di cibo e all’acqua
La più grande quota di mitigazione naturale secondo il rapporto IPCC è legata alla forestazione e a un nuovo ruolo dell’agricoltura. Da questi due fattori, insieme alla silvicoltura e all’utilizzo del suolo, possono arrivare risultati molto importanti anche nel breve periodo in molte regioni del pianeta.
Il ripristino delle foreste e di grandi ecosistemi vegetali rappresentano un altro grande potenziale di mitigazione anche se, come rileva il rapporto, sono ostacolate dalla competitività economica che insiste in modo sempre più forte sul suolo.
Una competizione, quella sull’utilizzo del suolo, che deve essere affrontata ancora una volta nel segno dell’interconnessione. Il suolo è evidentemente centrale per la produzione agricola che è chiamata a sua volta a una importante trasformazione nei metodi di produzione e nello sviluppo di un approccio che consenta di preservare, proteggere e in prospettiva valorizzare le biodiversità. Un approccio in sostanza che deve essere basato sulla capacità di perseguire obiettivi multipli, quello della riduzione delle emissioni, della protezione delle biodiversità, ma anche quello della produzione alimentare e della sicurezza alimentare.
Su tutti questi punti il tema della trasformazione agricola risulta centrale. La diffusione di pratiche di agricoltura sostenibile può portare a un doppio risultato: una riduzione delle emissioni legata alla produzione agricola e la diffusione di pratiche che consentono all’agricoltura di contribuire alla cattura e allo stoccaggio della CO2. In tutto questo un ruolo chiave dovrà essere svolto dalla capacità di attuare delle vere conversioni degli ecosistemi in favore di attività produttive agricole pensate anche per lavorare al miglioramento delle varietà e a un adattamento che sia funzionale alle comunità a cui ci si rivolge, ripensando i principi della diversificazione agricola e aumentando l’attenzione e gli investimenti anche verso forme di agricoltura urbana.
Una trasformazione questa che non può avvenire se contemporaneamente non si agisce a livello di trasformazione sociale, primariamente, nel caso del food, a livello di modalità e di abitudini di consumo, di prodotti e dunque di diete. Un cambiamento che permette di trasferire i suoi vantaggi e i suoi benefici sia a livello di produzione sia, soprattutto per quanto riguarda la possibilità di ridurre ogni forma di spreco, a ogni livello della catena alimentare. Un obiettivo che deve prevedere una maggiore capacità di programmazione e di allineamento tra produzione e consumo. In questo senso la necessità di agire sui due grandi ambiti della produzione e del consumo con un disegno comune rappresenta un fattore determinante per ottenere benefici in tempi brevi e per contribuire allo sviluppo di un sistema alimentare in grado di pianificare e controllare il proprio impatto.
Alfabetizzazione climatica: studiare e diffondere conoscenza sul clima
L’altra grande sfida sulla quale il report IPCC richiama la massima attenzione è quello dell’alfabetizzazione climatica, della necessità di investire su una educazione che consideri il valore dell’ambiente e che sia, nello stesso tempo e ad esempio, nella condizione di garantire una corretta percezione dei rischi e una adeguata consapevolezza e preparazione – presso tutte le popolazioni – di tutte le componenti che incidono sulla mitigazione e sull’adattamento.
Il rapporto sottolinea come una vera alfabetizzazione climatica, nel senso di una corretta conoscenza dei servizi disponibili per gestire i cambiamenti climatici, possa facilitare una migliore percezione del rischio, contribuire a mitigarne le conseguenze e aiutare ad accelerare la risposta in termini di cambiamento dei comportamenti.
L’interconnessione tra diversi fenomeni resta il tema al quale il rapporto dedica una attenzione speciale. Gli impegni verso la mitigazione sono e saranno realmente efficaci solo se gli sforzi saranno progettati e realizzati per essere integrati tra loro tenendo in altissima considerazione il contesto economico e sociale nel quale si devono sviluppare.
Un esempio è rappresentato dalle aree caratterizzate storicamente ed economicamente da una elevata dipendenza da combustibili fossili, sia per la produzione di energia sia come attività economica basilare per la sussistenza di larga parte della popolazione. In questi casi è necessario, come sottolinea il report, pensare alla transizione energetica considerando tutti i principi, i processi e le pratiche di una transizione giusta, ovvero creando le condizioni per una trasformazione economica in grado di garantire la sussistenza, in forme diverse, alle popolazioni coinvolte. La trasformazione dovrà in altre parole contare sulla fiducia delle popolazioni che non devono vivere il cambiamento come una minaccia, e anche questo rappresenta un risultato che si può ottenere solo attraverso una adeguata educazione ai cambiamenti climatici.
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