Con 525 voti favorevoli, 60 contrari e 28 astenuti il parlamento europeo ha approvato giovedì 10 novembre la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD), la direttiva che introduce nuovi obblighi di rendicontazione più dettagliati sulla misurazione dell’impatto delle imprese, con un insieme di regole che vanno a colmare le carenze a livello di Non Financial Reporting Directive (NFRD). (QUI per maggiori informazioni).
“Per entrare in vigore la direttiva deve passare al vaglio del Consiglio d’Europa che decide all’unanimità dei governi UE – sottolinea Luca Grassadonia, ESG Senior Consultant P4I. Si tratta di un passaggio importante che non si può considerare scontato, visti anche i rinvii che ci sono stati finora”.
Un registro unico UE dei dati aziendali
Grassadonia entra nel merito mettendo in evidenza che l’ultimo impianto della direttiva ha portato alla riduzione degli obblighi per le imprese extra UE e si muove con la volontà di costituire un registro unico UE dei dati aziendali cercando di riattivare un progetto fermo da anni.
Un processo, peraltro, non facile: i registri delle imprese hanno obblighi ed accessibilità molto diverse in ambito UE. Le differenze possono essere anche sostanziali e vanno al di là della dimensione legata alla reportistica sulla sostenibilità. Ad esempio, in Germania le aziende non quotate depositano il bilancio con due anni di ritardo, in Italia l’accesso è a pagamento. “Il registro unico e aperto di dati ESG senza uniformare anche il deposito dei bilanci contabili è una strada in salita – osserva ancora Grassadonia -.
La partita più importante è destinata a spostarsi sugli standard di rendicontazione
Per il resto – prosegue -, la CSRD ha recepito molte buone prassi e la partita più importante è destinata a spostarsi sugli standard di rendicontazione”.
Sergio Fumagalli, Team leader sostenibilità di P4I ricorda a sua volta il passaggio al Consiglio europeo, ma mette in evidenza che la maggioranza estremamente ampia raccolta al Parlamento è un segnale di cui il Consiglio dovrà tenere conto. Ma approvazione a parte “la CSRD – osserva Fumagalli – rappresenta un tassello di una strategia complessa e composita con molti atti che sono stati già approvati come Regolamento e dunque sono già efficaci. In ogni caso – ricorda – il completamento del percorso della direttiva prevede poi il recepimento nell’ordinamento nazionale dei 27 Stati dell’Unione”.
Entrando a sua volta nel merito della CSRD Fumagalli porta l’attenzione su alcune evidenze che rappresentano un cambiamento di prospettiva a partire dal fatto che la sua applicazione è destinata a coinvolgere molti più soggetti rispetto alla DNF. “Il report di sostenibilità sarà parte della relazione sulla gestione in una apposita sezione – osserva – e sarà soggetto ad assurance limitata da parte di un revisore abilitato con abilitazione specifica sulla sostenibilità”.
Il principio della doppia materialità
Uno dei fattori più rilevanti riguarda il fatto che la CSRD sancisce il principio della doppia materialità, finanziaria e di impatto, e il reporting sugli aspetti ambientali diventa obbligatorio.
Anche per Fumagalli l’attenzione è destinata a concentrarsi sugli standard di rendicontazione: gli ESRS (European Sustainability Reporting Standard) in corso di produzione da parte di EFRAG. Ma c’è anche un tema di “gradualità”, grazie alla scelta di progettare una versione degli standard meno pesanti per le PMI. “Un altro aspetto importante – osserva Fumagalli – riguarda il fatto che la CRSD fa più volte esplicito riferimento alla supply chain, nel senso che le imprese sono tenute a includere le informazioni pertinenti relative alle supply chain e a documentare le ragioni per cui non sono eventualmente nelle condizioni di disporne.
In conclusione “si tratta di un enorme cambio di passo che non ha eguali nel mondo – commenta -. Un passaggio che però potrebbe incidere sulla competitività delle imprese europee, se non sarà seguito da atti simili da parte di altri Stati. Nel caso del GDPR è stato così. Di certo costituirà un impegno importante soprattutto per chi non ha mai fatto nulla o per chi ha un reporting poco formale. In particolare, le aziende italiane fra i 250 e i 1.000 dipendenti saranno le più esposte, così come i fornitori PMI inseriti in supply chain europee”.
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