Il termine quote di CO2 è sempre più spesso accostato ai temi della sostenibilità ambientale, tanto da essere indicata spesso come una delle chiavi per la transizione green delle nostre economie. Cosa si nasconde dietro a queste parole però è fuori dalla portata per la grande maggioranza dei non addetti ai lavori, dunque è opportuno fare alcuni passi indietro.
Il punto di partenza inequivocabile è che la crescente concentrazione di CO2 in atmosfera, come noto, è la principale responsabile del cambiamento climatico globale ed è direttamente causata dalle attività antropiche (produzione e utilizzo di fonti di energia fossili, produzione di acciaio e cemento, fertilizzanti, allevamenti ecc.). Dunque, da diversi anni a questa parte, si sta cercando di scoraggiare l’ulteriore immissione in atmosfera di anidride carbonica e degli altri gas climalteranti come il metano (il cui impatto è comunque di norma misurato in tonnellate di CO2 equivalenti).
Cosa sono le quote di CO2
Le quote di CO2, o permessi di emissione, sono un meccanismo di mercato introdotto per limitare le emissioni di gas serra, in particolare di anidride carbonica (CO2). Questo sistema è noto anche come “cap and trade“.
In pratica, ogni azienda riceve o acquista un certo numero di quote, ciascuna delle quali consente l’emissione di una tonnellata di CO2. Se un’azienda emette meno CO2 di quanto le sue quote le consentirebbero, può vendere le quote in eccesso ad altre aziende che ne hanno bisogno.
L’obiettivo è incentivare le aziende a ridurre le loro emissioni, poiché possono risparmiare denaro vendendo le quote inutilizzate e devono spendere di più se superano il loro limite. Questo sistema è stato introdotto a livello internazionale dal Protocollo di Kyoto nel 1997 e viene utilizzato in molte regioni, tra cui l’Unione Europea.
Il meccanismo ETS, Emission Trading System
L’Europa, come spesso è capitato in materia ambientale, ha fatto da apripista elaborando il meccanismo delle quote di CO2 che, sostanzialmente, prevede il pagamento di un costo per la CO2 immessa nell’ambiente, così da spingere gli operatori “inquinanti” a fare il possibile per limitarne la produzione.
In particolare, questo concetto si è affermato con la Direttiva 2003/87/CE (modificata da ultimo dalla direttiva UE 2018/410), secondo cui dal primo gennaio 2005 gli impianti grandi emettitori dell’Unione Europa non possono funzionare senza un’autorizzazione alle emissioni di gas serra. La direttiva ha dato vita al Sistema per lo scambio di quote emissione di gas a effetto serra dell’UE (European Union Emissions Trading Scheme – EU ETS), secondo cui ogni impianto autorizzato deve compensare annualmente le proprie emissioni con quote (European Union Allowances – EUA, equivalenti a 1 tonnellata di CO2eq) che possono essere comprate e vendute dai singoli operatori interessati. Più precisamente, una volta l’anno, tutte le imprese che partecipano all’EU ETS devono restituire una quota di emissione per ogni tonnellata di CO2eq emessa.
C’è da rilevare che, comunque, un numero limitato di quote di emissione viene assegnato a titolo gratuito ad alcune imprese sulla base di regole armonizzate di assegnazione applicate in tutta Europa. Gli impianti manifatturieri, in particolare quelli esposti a rischio di delocalizzazione a causa dei costi del carbonio (rischio di carbon leakage diretto, vedi paragrafi successivi), ricevono una parte di quote a titolo gratuito in base a parametri di riferimento (benchmark). In ogni caso, le imprese che non ricevono quote di emissione a titolo gratuito o in cui le quote ricevute non sono sufficienti a coprire le emissioni prodotte devono acquistare le quote di emissione all’asta o da altre imprese. Al contrario, chi possiede quote di emissioni in eccesso può rivenderle.
In un certo senso, le quote rappresentano la valuta centrale del sistema ETS: una quota dà al suo titolare il diritto di emettere una tonnellata di CO2 o l’ammontare equivalente di un altro GHG. Gli impianti soggetti allo scambio devono comunque tenere traccia delle loro emissioni, con l’obiettivo di sapere in ogni momento quale quantità di quote devono restituire.
Attenzione, però: anche acquistando quote di CO2 dall’esterno, le imprese soggette all’ETS non possono fare ciò che vogliono, emettendo quantità spropositate di CO2. Vige il principio del “cap and trade”: questo sistema prevede che debba essere fissato un tetto o limite che stabilisce la quantità massima che può essere emessa dagli impianti che rientrano nel sistema. Entro questo limite, le imprese possono acquistare o vendere quote in base alle loro esigenze.
Sistema per lo scambio di quote di CO2: chi è interessato
Altro punto cruciale di tutto il meccanismo delle quote di CO2 è che quando una società non adempie agli obblighi di conformità (Compliance) riceve delle sanzioni piuttosto pesanti. I soggetti coinvolti nell’ETS sono relativamente numerosi: secondo le stime, si tratta di un meccanismo che coinvolge oltre 11.000 operatori a livello europeo, tra cui operatori aerei, impianti termoelettrici industriali, manifatture e impianti di produzione, stoccaggio e trasporto di diverso tipo. Da notare che nel meccanismo, oltre agli stati membri dell’UE sono coinvolte Norvegia, Liechtenstein e Islanda.
Ad oggi, sono circa 1.200 gli impianti italiani interessati, di cui il 71% nel settore manifatturiero. In particolare, coinvolti nella normativa ci sono le centrali di generazione di produzione di energia elettrica e di calore, i settori industriali ad alta intensità energetica, comprese raffinerie di petrolio, acciaierie e produzione di ferro, metalli, alluminio, cemento, calce, vetro, ceramica, pasta di legno, carta, cartone, acidi e prodotti chimici organici su larga scala, ma anche l’aviazione civile.
Le piccole imprese sono sostanzialmente escluse dal sistema delle quote di CO2: la direttiva ETS (art. 27) prevede infatti che gli Stati membri possono escludere dal Sistema per lo scambio di quote emissione di gas a effetto serra dell’UE (EU ETS) gli impianti di dimensioni ridotte (“piccoli emettitori”) con emissioni inferiori a 25 mila tonnellate CO2 equivalenti l’anno, se comunicano alla Commissione europea le “Misure equivalenti” che intendono applicare ai piccoli emettitori nazionali (e se la Commissione accetta tali misure).
ETS e PMI: il ruolo del RENAPE
Nel contesto dell’Emission Trading System (ETS), il RENAPE (Registro Nazionale Piccoli Emettitori) assume un ruolo cruciale per le piccole e medie imprese. Componente chiave della normativa ambientale italiana, il registro offre la possibilità di tracciare e monitorare le emissioni provenienti dai piccoli emettitori, ossia quelle imprese che producono annualmente tra le 10.000 e le 25.000 tonnellate di CO2. Un range di emissioni in cui si colloca un numero importante di aziende che sono rappresentative di una percentuale rilevante del totale delle emissioni italiane.
Il RENAPE, istituito dal Decreto Legislativo 13 marzo 2013, n.30, aiuta le PMI a rispettare i limiti di emissione e a partecipare agli sforzi nazionali di mitigazione del cambiamento climatico. Le aziende che sono tenute ad iscriversi al registro devono monitorare e rendicontare le loro emissioni annualmente all’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) per conformarsi alle normative ambientali, ma in questo modo possono anche accedere a finanziamenti europei per l’acquisto di CleanTech o lo sviluppo di Green Skill.
ETS 2: settori coinvolti e impatti sulle imprese
L’ETS 2 è un sistema separato dall’EU ETS e al quale è affidato il compito di gestire le emissioni di CO2 relative al mondo degli edifici, del trasporto su strada e in settori aggiuntivi rappresentati in larga misura dalle piccole e medie imprese non coperte dall’attuale EU ETS.
Il piano definito per l’ETS 2 prevede che questo sistema di scambio delle emissioni diventi operativo nel 2027 con una impostazione sempre di tipo “cap and trade” come nell’EU ETS, ma che in questo caso prevede una impostazione finalizzata alla riduzione delle emissioni del 42% entro il 2030 prendendo come punto di riferimento i livelli di emissione del 2005. Sulla base di questo “tetto massimo” di emissioni si calcolano le quote di CO2 che vengono messe a disposizione delle imprese interessate.
Le quote di emissione saranno messe all’asta e i proventi alimenteranno un Fondo Sociale per il Clima, che fornirà sostegno ai soggetti più vulnerabili ai cambiamenti climatici, tra cui famiglie e PMI, supporteranno gli Stati Membri nelle azioni di mitigazione e adattamento e daranno corso a interventi sociali legati al clima. Agli Stati Membri spetterà anche il compito di rendicontare come queste risorse vengono utilizzate.
In termini di timing l’ETS 2 sarà operativo a partire dal 2027. Il primo passo in questa direzione è tuttavia previsto nel 2025 con le attività di monitoraggio e di segnalazione delle emissioni. Nel corso del 2027 poi un volume di quote superiore al 30% sarà messo all’asta allo scopo di immettere liquidità al mercato.
L’acquisto delle quote di CO2
Ricapitolando, per non dover incorrere nei meccanismi sanzionatori previsti dall’ETS, le imprese hanno di fronte a sé un carnet di opzioni abbastanza limitato:
- Adottare misure per ridurre le proprie emissioni, investendo in tecnologie più efficienti e a basso rilascio di CO2;
- Acquistare le quote necessarie dalle aste o dal mercato EU ETS;
- Usare una combinazione delle due opzioni precedenti.
Concentriamoci sul secondo punto, ovvero sul mercato delle quote di CO2. La prima cosa da dire è che l’ETS dell’UE funziona come un programma di “limitazione e scambio”. La normativa fissa il numero massimo annuo di quote disponibili (il “limite massimo”) e si crea un mercato nel quale le quote vengono comprate e vendute. La spinta al mercato, lo ricordiamo, è data dal fatto che gli operatori necessitano di una quota per ogni tonnellata di biossido di carbonio equivalente emessa.
Le quote sono ottenute o tramite aste pubbliche – nelle quali i responsabili degli impianti devono presentare offerte – oppure gratuitamente. Gli operatori che hanno bisogno di quote per coprire le proprie emissioni possono anche acquistare quote su mercati specializzati e da altri operatori.
Facciamo un esempio concreto:
- La fabbrica A riceve più quote di quelle che le servono per coprire le proprie emissioni. Può decidere di tenere il surplus o di venderlo;
- La fabbrica B non riceve abbastanza quote gratuite per coprire le proprie emissioni e deve acquistare le quote mancanti all’asta oppure da altri operatori (a meno che abbia uno stock di quote da precedenti anni).
Per tenere sotto controllo il commercio di quote di CO2, esiste un Registro unico dell’Unione europea, una banca dati in formato elettronico che tiene traccia di tutti i passaggi di proprietà delle quote e consente agli operatori di compensare, annualmente, le proprie emissioni restituendo le quote agli Stati membri.
I prezzi delle quote di CO2
Ma come si determina il prezzo delle quote di CO2? Innanzitutto, occorre precisare che il numero di quote che ciascuno Stato mette all’asta è determinato prevalentemente sulla base delle emissioni storiche degli impianti fissi coperti dall’EU ETS presenti sul territorio nazionale. Almeno la metà dei proventi delle aste di quote per gli impianti fissi – e tutti i ricavi delle aste di quote per gli operatori aerei – deve essere utilizzata dagli Stati membri in azioni volte a combattere il cambiamento climatico. Per tanti anni il problema è che le quote hanno avuto un valore estremamente basso, senza rappresentare un reale incentivo per le imprese a mettere in campo ambiziosi obiettivi di efficientamento o di sostenibilità.
Fondamentalmente, il problema scaturiva dal numero eccessivo di quote gratuite assegnate dalla Ue, che tendeva quindi a livellare verso il basso il valore delle quote di CO2. In particolare dal 2005 al 2012 (le prime due fasi dell’ETS dell’UE) quasi tutte le quote sono state assegnate a titolo gratuito. Ogni anno, il numero di quote assegnate era maggiore dell’ammontare necessario a coprire le emissioni effettive, specie quando è iniziata la recessione economica successiva al 2008, comportando un crescente saldo positivo di quote detenuto dai singoli operatori, con effetti estremamente negativi per le quote di CO2. La situazione sembra ora radicalmente cambiata: le quote gratuite per le imprese si vanno riducendo di anno in anno, per favorire il raggiungimento degli ambiziosi target di decabonizzazione europei al 2030.
In effetti i prezzi nell‘EU ETS hanno chiuso il 2021 a oltre 80 euro per tonnellata di CO2, più del doppio del prezzo alla fine del 2020, proprio sulla base delle aspettative di un ulteriore innalzamento dei target Ue (come previsto dal pacchetto Fit for 55), mentre. In aggiunta a ciò, l’impennata dei prezzi del gas naturale rispetto al quarto trimestre ha portato a una maggiore produzione di energia da carbone, stimolando così la domanda di permessi e rendendoli così più costosi.
Da rilevare che in Italia, il decreto legislativo n. 199/21 di implementazione della direttiva europea, cd.RED II, sulle fonti rinnovabili, all’articolo 15.1, prevede che, dal 2022, una quota dei proventi delle aste per i permessi di emissione della CO2 sarà destinata alla copertura dei costi d’incentivazione delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica mediante misure finanziate dalle tariffe dell’energia. In effetti l’aumento delle quota della CO2, sta producendo un innalzamento dei proventi derivanti dalla messa all’asta delle quote nella disponibilità dello Stato italiano.
Rischio carbon leakage: che cos’è?
Il carbon leakage è un fenomeno che si verifica quando, a causa di politiche ambientali rigorose in un paese o in una regione, le produzioni ad alta intensità di carbonio vengono spostate in aree con normative meno severe. In altre parole, invece di ridurre globalmente le emissioni di CO2, queste vengono semplicemente “trasferite” da un luogo all’altro.
Questo può accadere, ad esempio, se un paese impone tasse elevate sulle emissioni di carbonio, spingendo le aziende a spostare la loro produzione in paesi con tasse più basse o senza tasse sul carbonio. Il risultato è che le emissioni globali di CO2 potrebbero non diminuire e addirittura aumentare.
Il carbon leakage è una preoccupazione importante nelle discussioni sulle politiche climatiche, poiché può minare l’efficacia delle misure di riduzione delle emissioni. Per questo motivo, molte proposte di politica climatica cercano di includere misure per prevenire il carbon leakage, come l’assegnazione gratuita di quote di emissioni a certi settori o l’introduzione di una “carbon tax” (un tipo di tassa sul carbonio che si applica alle importazioni).
Carbon leakage diretto e indiretto
Ovviamente l’implementazione di un sistema di quote sulla Co2 prodotto, in un’economia che si basa ancora fortemente sulle fonti fossili ad alto contenuto di carbonio, comporta dei rischi. Il primo, che abbiamo parzialmente introdotto, è il cosiddetto “carbon leakage diretto” che fa riferimento rischio di delocalizzazione delle imprese europee a causa degli alti prezzi della CO2.
Esiste però un’altra problematica, definita come “carbon leakage indiretto”, ovvero l’aumento dei prezzi dell’elettricità, causata dagli alti prezzi del carbonio, che le imprese energetiche europee utilizzano ancora oggi come materia prima. Da un punto di vista normativo l’articolo 10 bis, paragrafo 6, della direttiva ETS prevede che gli Stati membri possano adottare “misure finanziarie a favore di settori o sottosettori considerati esposti a un rischio elevato di rilocalizzazione delle emissioni di carbonio a causa dei costi connessi alle emissioni di gas a effetto serra trasferiti sui prezzi dell’energia elettrica, al fine di compensare tali costi e ove tali misure finanziarie siano conformi alle norme sugli aiuti di Stato applicabili e da adottare in tale ambito”.
Carbon tax: strategia UE per contrastare il carbon leakage
Al fine di contrastare il carbon leakage, è arrivato il Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM) che, comunemente noto come “tassa al carbonio”, rientra nel pacchetto di strategie dell’Unione Europea per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Questo meccanismo impone una tassa sulle importazioni da paesi con normative ambientali sono più permissive rispetto all’UE, basata sulle emissioni di CO2 generate durante la produzione dei beni importati, con l’obiettivo di garantire la parità di condizioni nel mercato globale in merito alla “quantità” di emissioni che caratterizzano prodotti e servizi, penalizzando i prodotti importati che non rispettano determinati standard, e incentivare le imprese a investire in tecnologie più pulite e sostenibili.
Le imprese devono affrontare diversi adempimenti relativi al CBAM, tra cui:
- Valutazione dell’impronta di carbonio: Calcolare le emissioni di CO2 dei prodotti importati.
- Acquisto di certificati CBAM: Acquistare certificati corrispondenti alle emissioni dei prodotti importati, con un valore allineato al sistema di scambio delle quote di emissione dell’UE.
- Rendicontazione e verifica: Rendicontare regolarmente le emissioni e l’acquisto dei certificati, verificati da organismi indipendenti.
- Ottimizzazione della catena di approvvigionamento: Rivedere e migliorare le catene di fornitura per ridurre i costi e migliorare la sostenibilità.
- Innovazione e sostenibilità: Investire in tecnologie più pulite e pratiche di produzione più sostenibili.
Le implicazioni per le imprese sono significative: da un lato, la tassa può rendere i prodotti importati meno competitivi, favorendo le aziende europee; dall’altro, le imprese che esportano verso l’UE dovranno sostenere costi aggiuntivi per conformarsi agli standard ambientali europei.
Nonostante le criticità, come le accuse di protezionismo e i dubbi sull’efficacia, il CBAM rappresenta un passo importante per affrontare le emissioni di carbonio a livello globale. Le prospettive future dipendono dall’evoluzione legislativa e dalla reazione delle altre economie mondiali.
Come prepararsi al meccanismo di aggiustamento del carbonio alle frontiere
Dal 1 ottobre 2023 fino alla fine del 2026, la Commissione Europea ha avviato una fase di transizione o preparatoria al Carbon Border Adjustment Mechanism fornendo alle imprese il tempo e gli strumenti necessari per adeguarsi alla misura che intende garantire un valore equo al carbonio ed evitare i rischi di carbon leakage per quegli attori che scelgono di importare nei paesi UE prodotti realizzati in aree del pianeta nelle quali le normative relative alle emissioni sono meno rigorose rispetto a quelle adottate in Europa.
Durante questa fase, le imprese importatrici di beni nell’UE dovranno iniziare a raccogliere e segnalare i dati sulle emissioni di CO2 incorporate nei loro prodotti, senza però nessun tipo di onere o di impegno finanziario. Questo obbligo di rendicontazione inizierà il 1 ottobre 2023 e il primo rapporto dovrà essere presentato entro il 31 gennaio 2024. L’obiettivo è permettere alle aziende di prepararsi e perfezionare le procedure necessarie per il 2026.
Per facilitare questo processo, la Commissione Europea ha sviluppato guide specifiche per aiutare le imprese importatrici e quelle che producono fuori dai confini UE a fornire dati coerenti con le richieste del CBAM. Inoltre, sono in fase di sviluppo soluzioni IT dedicate per supportare data collection e data analysis relative alle emissioni “importate” nei beni in arrivo in area UE.
La Commissione ha anche predisposto attività di informazione e formazione per i settori con le maggiori quote di emissione, come cemento, alluminio, fertilizzanti, elettricità, idrogeno, ferro e acciaio, per garantire una transizione agevole e conforme.
La Governance dell’ETS
La Commissione sorveglia le misure adottate dagli Stati membri a norma della direttiva sull’ETS dell’UE, predispone regole per le aste e l’assegnazione a titolo gratuito delle quote, fornisce linee-guida sull’applicazione della direttiva agli Stati membri, agli operatori e ai verificatori esterni e presenta proposte legislative sull’ETS dell’UE al Parlamento europeo e al Consiglio;
Le autorità competenti degli Stati membri dell’UE controllano e approvano i piani di monitoraggio delle emissioni degli operatori, ispezionano gli operatori e accettano le comunicazioni delle emissioni verificate trasmesse da questi ultimi, sulla base della normativa UE e degli orientamenti della Commissione;
Gli operatori soggetti al limite di emissione di GES fissato dall’UE ottengono e restituiscono, ogni anno, un ammontare di quote corrispondente alle rispettive emissioni. La mancata restituzione di un ammontare sufficiente di quote viene sanzionata con una ammenda di 100 euro per biossido di carbonio equivalente (CO2e) non coperto, oltre ad ammende aggiuntive fissate a livello di Stato membro (secondo disposizioni armonizzate contenute nella direttiva sull’ETS dell’UE);
I verificatori esterni (approvati da enti di accreditamento negli Stati membri) controllano e certificano i dati sulle emissioni comunicati dagli operatori.
Le differenze con il mercato volontario dei crediti di carbonio
Da non confondere con il meccanismo ETS delle quote di CO2 è il mercato volontario dei crediti di carbonio, che pure è in grande crescita. Si tratta di un certificato negoziabile o Certified Emission Reductions (CERs): un titolo equivalente a una tonnellata di CO2 non emessa o assorbita grazie a un progetto di tutela ambientale realizzato da un ente terzo con lo scopo di ridurre o riassorbire le emissioni globali di CO2 e altri gas ad effetto serra. In altre parole, acquistare crediti di carbonio (carbon credits) permette alle aziende che emettono gas serra, di contribuire economicamente alla realizzazione e allo sviluppo di uno o più progetti di tutela ambientale. Questi progetti normalmente sono realizzati in Paesi in Via di Sviluppo, con obiettivi di promozione sociale e di autosufficienza economica per le popolazioni locali.
Il mercato volontario dei crediti di carbonio è un mercato in cui le aziende, gli individui o le organizzazioni possono acquistare crediti di carbonio per compensare volontariamente le loro emissioni di gas serra. Si tratta di un mercato diverso dal mercato regolamentato dei crediti di carbonio, in cui le aziende sono obbligate per legge a ridurre le loro emissioni di gas serra.
In pratica, un credito di carbonio rappresenta la rimozione o la capacità di evitare almeno una tonnellata di anidride carbonica (o un equivalente di gas serra) dall’atmosfera. Questi crediti possono essere generati da vari progetti, come la riforestazione, l’energia rinnovabile, la cattura e lo stoccaggio del carbonio, ecc.
Le aziende possono acquistare questi crediti per compensare le loro emissioni di carbonio e quindi affermare di essere “carbon neutral“. Questo può essere un modo per le aziende di dimostrare la loro responsabilità ambientale e soddisfare la domanda dei consumatori per prodotti e servizi sostenibili. Tuttavia, è importante notare che l’acquisto di crediti di carbonio non sostituisce la necessità di ridurre direttamente le emissioni di gas serra. È un complemento, non un sostituto, per l’azione diretta sul cambiamento climatico.
Articolo aggiornato al 21 agosto 2024